Il Super Rugby si vince con la difesa

La finale del campionato dell’altro emisfero analizzata nei suoi punti chiave

ph. Crusaders Rugby

L’attacco vince le partite, dice l’adagio, ma le difese vincono i campionati.

Okay, è un modo di dire preso in prestito dai cugini del football americano, ma la sostanza rimane la medesima: nella finale del Super Rugby 2019 si sono incontrare quelle che nella stagione regolare sono state la prima e la terza difesa per numero di punti subiti. I Crusaders hanno accusato appena 257 punti in 16 partite, per una media di 16,1 punti subiti a partita; i Jaguares ne hanno presi 352, pari a 22 punti subiti a partita.

La partita conclusiva, vinta dai neozelandesi con un 19 a 3 che racconta in maniera limitata il grande equilibrio regnato in campo, si è basata sul confronto estremizzato fra le due fasi difensive, cosa che ha reso l’incontro poco spettacolare, con la complicità del freddo e dell’umidità che hanno reso molto difficile la gestione dell’ovale sotto la grande pressione imposta sia da una squadra che dall’altra.

Alla fine l’hanno spuntata i Crusaders per due ragioni fondamentali: sono stati più bravi a sfruttare una delle pochissime occasioni da meta della partita, e sono stati più disciplinati, concedendo appena 4 calci di punizione in 80 minuti.

Difese diverse

Sabato mattina abbiamo assistito a un affascinante confronto fra due sistemi difensivi eccelsi, per quanto diversi tra loro.

I Jaguares puntano su un sistema difensivo con una grande velocità di salita, che gioca la sua forza sulla lettura dei tempi di volo del pallone. La prima linea difensiva non è particolarmente densa, ma copre una buona parte della larghezza del campo, senza impegnare uomini nel recupero del pallone a meno che non si presenti un’occasione golosa.

Questa impostazione lascia molto spazio a duelli uno contro uno, dove però gli argentini sono davvero molto forti: placcano molto spesso l’avversario impattandolo dalla vita in giù, con impatti decisi per mettere a terra nel minor tempo possibile.



Non vi fate attirare troppo dal pallone e osservate il comportamento dei difensori Jaguares più larghi. Salgono veloci solamente quando il pallone lascia le mani di un avversario, perché a quel punto la scelta è fatta e le opzioni di gioco si restringono. Quando il pallone è fra le mani di Havili la difesa temporeggia, appena passa verso l’esterno ecco la salita che intrappola l’attacco.

Questo ha messo in difficoltà l’attacco dei Crusaders, che non è mai riuscito a mettere in moto le qualità dei suoi giocatori esterni come Bridge e Reece. E’ mancata sicuramente anche l’abilità di playmaking di Ryan Crotty al fianco di Richie Mo’unga, con Jack Goodhue che è un centro totalmente diverso dal compagno di squadra. Crotty è infatti molto bravo a leggere le situazioni che gli si presentano davanti e a sfruttare tutte le opzioni a sua disposizione, mentre i trequarti più impegnati nella zona centrale di campo nella partita di sabato, come appunto Mo’unga, Goodhue, ma anche Ennor e Havili, sono stati costretti all’azzeramento delle opzioni disponibili dalla puntuale salita avversaria.

Al contrario, rispetto agli avversari, i Crusaders scelgono da par loro di difendere enfatizzando l’aspetto della densità nella parte centrale del campo e lasciando spazio all’esterno. La rapidità della salita difensiva non è particolarmente accentuata, a meno che il ricevitore del pallone non sia facilmente identificabile, per consentire ai giocatori esterni di scalare verso lo spazio nel caso in cui gli avversari spostassero il pallone.

I Jaguares non sono mai riusciti ad avanzare con gli avanti e dare alla propria cerniera mediana palloni di qualità da poter giocare. L’impatto nelle vicinanze del raggruppamento è stato costantemente vinto dalla difesa neozelandese, che è anche stata capace di sporcare e rallentare ogni pallone possibile proprio grazie alla vicinanza alla ruck di diversi giocatori. Encomiabile il lavoro degli avanti nella quantità di lavoro svolto e nella capacità di tornare subito sugli appoggi per essere nuovamente utili.

Gli argentini hanno provato allora ad allargare qualche pallone alla ricerca dello spazio all’esterno, spesso con la formula ‘palla a Pablo Matera sui 15 metri’ che tante fortune ha portato alla squadra di Gonzalo Quesada. La tattica di affidarsi al supereroico flanker ha peraltro funzionato in un paio d’occasioni, fra cui la più clamorosa delle opportunità offensive toccate ai Jaguares e scaturita da un visionario offload del numero 6, poi sprecata da Matias Moroni.



In questa sequenza c’è tutto: palloni nel raggruppamento sporcati in ogni modo possibile, placcaggio raddoppiato, nessun avanzamento dell’attacco, una difesa densa nella parte centrale del campo che lascia scientemente liberi i 15 metri laterali. I Jaguares provano ad affidarsi allora a Matera, ma il suo attacco viene neutralizzato con relativa serenità.

Il più delle volte, però, i palloni lenti per via del già citato scarso avanzamento e l’estrema macchinosità di un Tito Diaz Bonilla in giornata negativa hanno consentito alla difesa di gestire nel migliore dei modi i tentativi di portare lo scontro su spazi più larghi, dove l’atletismo dei negros y naranja poteva fare la differenza.

La sacra importanza della mischia chiusa 

Come sempre una parte molto rilevante dell’incontro si è decisa in mischia. Il confronto fra i due pacchetti, alla vigilia, era dato preponderantemente in favore dei Crusaders, che ne fanno un punto di forza, mentre gli argentini, contrariamente allo stereotipo, hanno sofferto tutto l’anno in questa fase ordinata.

Il duello che ha deciso gli equilibri della sfida in chiusa è stato quello fra Joe Moody, l’esperto numero 1 dei Crusaders, e Santiago Medrano, il giovane pilone che contribuisce sempre in maniera notevole alla causa dei suoi, ma soprattutto per il tanto lavoro che fa in giro per il campo. Le sfide iniziali non hanno visto un vero e proprio vincitore, con i due che si sono reciprocamente aggiudicati un duello per poi perdere il successivo.

Con l’andare avanti della partita, però, la maggiore malizia e classe di Moody sono emerse: quando il pilone degli All Blacks non ha costretto l’avversario a cedere e a vedersi punito con un calcio di punizione, è riuscito comunque a infliggere una pressione che non ha mai reso la mischia chiusa una buona piattaforma per i Jaguares.

Per Medrano la mischia chiusa si è trasformata sempre più in un brutto incubo, costretto continuamente a stappare dalla spinta di Moody, capace di andare più basso di lui ed entrare con la testa sotto il suo petto, a volte anche con una angolo di spinta al limite del regolamentare, ma mai punito dall’arbitro.

Il coronamento della prestazione di Moody arriva al minuto 52, dopo un tenuto alto in area di meta. Dalla mischia a cinque metri che ne deriva, Moody solleva letteralmente Medrano di peso, costringendolo non solo a stappare ma anche a perdere contatto con il terreno. Arriva da lì il calcio di punizione del 13 a 3, quello che mette i Crusaders oltre il break e consegna loro un’ipoteca sul terzo titolo consecutivo.

Ecco perché, per chi scrive, Joe Moody dovrebbe essere eletto il man of the match della finale di Super Rugby 2019.

Altre prestazioni memorabili

Pur nel suo essere spezzettato e chiuso, l’incontro fra Crusaders e Jaguares non ha deluso in termini di prestazioni da incorniciare, anche se dobbiamo rimanere all’interno del reparto degli avanti.

Per i tre volte campioni consecutivi del Super Rugby, Matt Todd è stato l’altro eroe di giornata, in una partita che ha esaltato le sue caratteristiche e che certamente gli ha fatto guadagnare dei punti anche agli occhi di Steve Hansen, che ancora non potrà fidarsi pienamente di Sam Cane. Todd è stato il miglior placcatore dei suoi, a quota 17, ed ha gestito un discreto numero di palloni in attacco, ma si è esaltato soprattutto nella battaglia al breakdown, dove è stato una e vera e propria piaga per gli avanti avversari: ha forzato turnover a terra e in piedi, tenendo alti i portatori avversari, ha rallentato il possesso dei Jaguares in ogni modo possibile ed è stato una presenza fisica costante per gli avversari, con una grandissima capacità di rimettersi rapidamente a disposizione dei compagni dopo un intervento.

Per gli sconfitti i nomi da citare sono due, entrambi al passo d’addio. Pablo Matera e Tomas Lavanini, infatti, giocheranno in Europa dopo la Rugby World Cup. Il flanker raggiungerà Nicolas Sanchez allo Stade Français, mentre l’imponente seconda linea sarà agli ordini di Geordan Murphy a Leicester.

Matera è la punta di diamante di questa squadra dei Jaguares ed ha giocato quella che forse è stata la sua miglior stagione in carriera. Rispetto al passato, Matera ha un fisico più asciutto, un tratto che lo accomuna a molti suoi compagni di squadra. Quello che però fa la differenza non è solo la cilindrata di un motore che da sempre gli ha permesso di essere utilizzato come apriscatole per la sua capacità di battere l’avversario. Oggi Matera è un giocatore maturo, con una grande fiducia in sé stesso: è consapevole del proprio ruolo di primo piano e lo ha accettato senza che questo si trasformi necessariamente in pressione. E questo gli da anche la possibilità di provare a forzare quelle due o tre giocate tecnicamente di un altro livello viste durante la finale.

Tomas Lavanini, invece, è tutto un altro tipo di giocatore. Dopo un lungo periodo difficile, in cui sembrava essersi un po’ perso alla ricerca di un se stesso che avesse qualcosa di più da dare rispetto a scosse di energia mal incanalate, sembra che oggi il seconda linea abbia capito che per essere un giocatore duro non serve finire a muso duro contro il più grosso degli avversari, a strattonarsi il bavero. Serve piuttosto piazzare il proprio colpo migliore contro l’alfiere degli altri, proprio come ha fatto ammutolendo lo stadio di Christchurch con quel durissimo placcaggio su Kieran Read.



‘Caro Kieran, non è un addio, è un arrivederci!’ firmato Tomas Lavanini

Con la spinta in più della sua ultima presenza con la maglia dei Jaguares, Lavanini ha offerto la sua miglior prestazione da lungo tempo a questa parte, dimostrando continuamente la volontà di voler lavorare per la squadra con tanti placcaggi (9, terzo dei suoi, ma in 63′) e tanta voglia di portare il pallone avanti. Se questo è il Tomas Lavanini che i Tigers avranno in Premiership il prossimo anno, è legittimamente da considerarsi una stella nel campionato più duro del mondo.

Lorenzo Calamai 

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