La cultura di squadra: a lezione da Andrea Masi

L’allenatore dell’Academy Wasps ci parla dei valori da sviluppare all’interno di un gruppo e del loro impatto in campo

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ph. Sebastiano Pessina

La team culture è un argomento di cui si sente parlare tanto negli ultimi anni, soprattutto in riferimento alle squadre che più stanno avendo successo. Per spiegare cosa sia, e in cosa si declini nella realtà, partirò dalla mia esperienza qui ai Wasps come allenatore della Junior Academy. Perché la team culture non deve riguardare solo i giocatori Senior.

La team culture spiegata ai ragazzi Under 18

Assieme al resto dello staff, stiamo pianificando la stagione 2018/19 della nostra Junior Academy e la priorità che ci siamo dati è quella di creare una cultura di club, un forte senso di appartenenza in cui i nostri ragazzi Under 18 si riconoscano. Perché siamo arrivati a porci questa priorità? Perché ci siamo resi conto che i ragazzi tecnicamente e fisicamente sono cresciuti molto, ma sopravvivono in loro alcuni atteggiamenti che a volte non sono rispettosi del sistema: qualcuno dimentica di osservare le regole, e noi come staff vogliamo intervenire e aggiustare queste situazioni affinché non si ripetano. Dare ai ragazzi dei valori forti, in cui il rispetto di tutti e di tutto sia alla base dei rapporti umani.

Anche perché puoi essere forte atleticamente e tecnicamente, ma poi è questo che contribuisce a fare la differenza: creare un ambiente giusto, in cui tutti vanno nella stessa direzione. E ciò ti permette di raggiungere traguardi straordinari anche con giocatori comuni. Prendiamo l’esempio di due squadre che qua da noi vengono sempre associate al concetto di team culture: Exeter e Saracens.

Gli esempi Exeter e Saracens

Qui in Inghilterra si è parlato molto della crescita di Exeter: sesto nel 2013, ottavo la stagione dopo, quinto nel 2015, in finale nel 2016, campione d’Inghilterra lo scorso anno. I Chiefs giocano un rugby fantastico e raggiungono traguardi incredibili. E lo fanno con una rosa che, tolti giocatori di altissimo livello come Nowell e Slade, potremmo definire nella media, o comunque con meno superstar rispetto ad altre squadre. La loro cultura è proprio questa, puntare tantissimo sui giovani e trasmettere loro valori come etica del lavoro e professionalità. Il motto degli All Blacks “No dickheads allowed” si sposa perfettamente ad Exeter: è la dimostrazione che con una buona team culture un gruppo di buoni giocatori può diventare una squadra fortissima.

I Saracens invece hanno nella propria identità la volontà di creare il maggior numero di momenti memorabili. Ogni giorno, ogni allenamento, ogni occasione è buona per essere resa memorabile e non parlo solo di vittorie e trofei sollevati. Fanno tantissime attività con i giocatori, coinvolgendo le loro famiglie. Si muovono come “famiglia Saracens” e lo scopo è proprio creare un gruppo compatto, che può ricordare l’idea in campo del Wolf Pack.

Valori condivisi e non imposti

Personalmente, non ho avuto una grande esperienza di team culture, intesa come individuare in pre stagione dei valori su cui basare il lavoro di tutto l’anno. Magari avevano forme più semplici, come regole date da rispettare, ma non erano il frutto di un processo di confronto e condivisione che parte prima di tutto dai giocatori, che discutono e identificano i valori su cui vogliono basare il proprio lavoro nei mesi successivi. E se devo essere sincero, credo che quelle “regole” ricevute dall’alto dallo staff non abbiano fatto centro: l’idea che qui in Academy vogliamo sviluppare è invece questa, far sì che siano i giocatori – benché giovani – a individuare i loro valori. Anche perché soprattutto a quell’età si è più propensi a rispettare una regola che ti dai come gruppo rispetto ad una regola che ti danno dall’esterno.

Poi certo, non si parla mai di totale libertà, anche perché in ogni gruppo c’è chi ha una personalità più forte e tende a prendere il sopravvento imponendo le proprie regole ed escludendo gli altri. È normale, fa parte delle dinamiche umane, e noi come staff siamo attenti a dare supporto e partecipare in modo attivo e propositivo all’individuazione di queste regole. E il dialogo è fondamentale: se qualcosa non va, bisogna parlarne.

L’influenza sui risultati in campo

E tutto questo ha influenza anche sui risultati in campo. Basta pensare all’Inghilterra che nel giro di pochi mesi è passata dal peggior Mondiale al Grande Slam: i giocatori erano pressoché gli stessi, ma è evidente che Eddie Jones ha portato delle novità che riguardano soprattutto i valori, le dinamiche interne. Il capo allenatore in questo ha un ruolo fondamentale con il suo apporto e qui ci ricolleghiamo al discorso della figura del Director of Rugby di cui abbiamo parlato in passato: non un semplice allenatore, ma una persona che ha il ruolo di gestire un gruppo formato da singoli individui, ognuno dei quali va stimolato a migliorare in un modo diverso dall’altro.

Dare una base di valori condivisi significa creare un ambiente giusto, sano, dove ci si rispetta, dove si va a lavorare con piacere, e dove si possono raggiungere traguardi straordinari.

Questa premessa ci porta a ricollegarci con quanto detto in apertura a proposito della Junior Academy ai Wasps. Ultimamente ci siamo accorti di un problema da non trascurare, che è quello del moaning, che potremmo definire lamentele. Quando tutto si alza, dal livello di gioco ai contratti, è più facile che i giocatori si sentano legittimati a fare polemica: ciò è estremamente nocivo per il gruppo, perché porta negatività. Ed è un qualcosa che vogliamo eliminare partendo dalla base, dai ragazzi che ancora non sono a livello Senior. Se a 16/17 anni capiscono quali sono i giusti valori con cui creare un ambiente positivo, quando poi arrivano davvero in alto, ai massimi livelli, sarà più facile per loro avere un approccio e un atteggiamento sempre positivo, anche nei momenti di difficoltà. E questo ci porta ad una frase in cui credo tantissimo, che è il motto di uno degli allenatori più grandi al mondo: Wayne Smith.

“Better people make better players”. Il talento non basta

Il nostro primo obiettivo come allenatori dell’Academy è educare e sviluppare persone migliori. Non è una frase fatta, è un principio in cui crediamo fermamente. Per restare da quelle parti del mondo, consiglio la lettura del libro Legacy di James Kerr: parla di come negli anni è stata sviluppata e modellata la cultura di squadra all’interno dell’ambiente All Blacks. Si parla spesso di Wayne Smith, dei cambiamenti che ha portato e della sua volontà di creare persone migliori: quello deve essere l’obiettivo di un allenatore, sviluppare persone, creare una cultura di club in cui tutti coloro che sono coinvolti credano in una base di valori che giudicano imprescindibili.

Poi certo, per essere tra i migliori al mondo c’è bisogno di talento: ma se non è supportato da valori come etica del lavoro, disciplina, passione, lavoro di squadra, non è sufficiente per arrivare in alto, dove oltre alle doti tecniche e atletiche servono doti umane. Se vuoi essere un bravo giocatore, devi essere una brava persona.

Il giocatore che più mi ha ispirato all’inizio della mia carriera è stato indubbiamente Jonny Wilkinson: un maniaco del lavoro e della preparazione, la sua devozione mi ha ispirato a lavorare tanto ed essere professionale in tutto quello che facevo. So che non sono mai stato un giocatore con un talento eccelso e non sono mai stato tra i più talentuosi delle squadre di cui ho fatto parte. Ma quando ripenso ai miei anni da giocatore, credo che valori come etica del lavoro, passione, lealtà e professionalità mi abbiano permesso di fare la carriera che ho fatto. I valori possono anche compensare la parziale mancanza di talento ed è per questo che vogliamo trasmettere ai nostri giovani Under 18 una forte team culture basata su questi concetti.

Andrea Masi

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