Il rugby dei paesi e delle capitali. Come l’ambiente esterno influenza la professione

Un viaggio di quattro tappe da L’Aquila a Londra, passando per Biarritz e Parigi. Alla guida Andrea Masi

biarritz tifosi rugby

ph. Reuters

Dopo aver affrontato un argomento di carattere tecnico come la video analisi e l’evoluzione che essa ha conosciuto negli ultimi anni, torniamo a parlare di questioni legate in modo più generale a ciò che significa essere, nel quotidiano, un rugbista professionista. Si potrebbe pensare che lo svolgersi giorno dopo giorno della professione di atleta non subisca sostanziali modifiche a seconda del luogo di lavoro. E invece essere rugbista a L’Aquila è diverso rispetto a Biarritz, Parigi o Londra. Cambiano, per esempio, il tuo coinvolgimento emotivo, il legame con i compagni di squadra e il rapporto con i tifosi… E allora, iniziamo un breve viaggio in quattro tappe, dall’Abruzzo fino a Coventry, alla scoperta delle peculiarità “ambientali” di quattro luoghi ovali in cui ho trascorso momenti importanti del mio percorso umano e sportivo. E come tutti i viaggi, si parte sempre da casa!

 

 

L’Aquila

Il mio esordio in Prima Squadra con la maglia de L’Aquila è avvenuto nell’anno in cui la squadra era campione in carica, dopo la vittoria nella finale di Padova contro il Milan. Rimasi affascinato dal calore e dall’entusiasmo che si respiravano in città: fu uno dei motivi scatenanti del mio amore per il rugby inteso come sport ma anche come ambiente. I giocatori erano visti come idoli ed eroi, si girava per strada e respirava rugby. Certo, la dimensione ridotta della città aiuta in questi casi, come per esempio Rovigo e Padova, ma devo dire che allora più di oggi il rugby era percepito in modo più profondo: si veniva identificati come giocatori de L’Aquila Rugby e la cosa mi riempiva d’orgoglio. Il sogno di noi ragazzi era quello di giocare in prima Squadra davanti ai tifosi del Fattori, il senso di appartenenza al club era fortissimo. Grazie alla sua storia, alla sua tradizione, ma soprattutto dalla rapporto della città e dei suoi tifosi con la squadra: tutto ciò ti spinge e ti fa andare oltre i tuoi limiti. Il pubblico ha un compito importante perché crea l’ambiente in cui devi scendere in campo: più questo è caloroso e familiare, e più è un piacere giocare. Personalmente poi, ho avuto l’immensa fortuna di esordire in Nazionale proprio al Fattori: era il 26 agosto 1999 e giocavamo contro la Spagna. E’ stato un momento meraviglioso e nonostante siano passati tanti anni lo ricordo molto bene.

L’Aquila è una bellissima piazza dove giocare a rugby. L’interesse con gli anni è sceso, ma questa credo sia una conseguenza del tutto naturale nel nostro particolare sport: è bello da giocare e da vedere se c’è un certo tipo di qualità. Quando il livello scende, con esso calano anche interesse ed entusiasmo e tutto diventa più noioso. Negli anni comunque, le piccole realtà hanno dimostrato e continuano a dimostrare grande interesse per il rugby, basta pensare a quali squadre militano oggi in Eccellenza. E quella delle piccole piazze, calorose e in cui la palla ovale è profondamente radicata, è una questione comune un po’ in tutta Europa: basta pensare a quanto rugby ci sia nel sud-ovest della Francia. E questo ci porta al secondo importante capitolo della mia carriera: Biarritz. Una realtà incredibile. Extraordinaire!

 

 

Biarritz

Per capire cosa significhi il BO (Biarritz Olympique Pays Basque) per la città di Biarritz, bisogna fare una premessa: lì si vive di solo rugby. Sette giorni su sette, 365 giorni l’anno. La città è un tutt’uno con la sua squadra e tutti sono coinvolti in maniera totale con le sue vicende. Si respira rugby nel vero senso della parola. Ma c’è di più, perché quando sono arrivato il BO era campione in carica di Francia e vice campione d’Europa. Schierava giocatori come Harinordoquy, Yachvili,

andrea masi biarritz rugby

ph. Reuters

Traille…Leggende, mostri sacri del rugby. Avere l’opportunità di giocare a Biarritz era un sogno: mi sentivo orgogliosissimo di rappresentare una squadra così importante in un posto magico. Rugbisticamente era il punto di riferimento tra i club francesi. Il massimo.

Per molti aspetti, per me che venivo da L’Aquila e Viadana, ambientarmi fu facile. Sono comunque realtà che hanno in comune la dimensione geografica ridotta, il senso di appartenenza, il rapporto genuino con i tifosi con cui si parlava tranquillamente dopo la partita, ma anche per strada. Tutto ciò mi aiutò a non sentire la pressione legata alla storia, alla tradizione e alle aspettative che la squadra aveva. E poi c’era il derby con Bayonne. IL Derby.

 

Dal Parc des sports d’Aguiléra casa del BO allo Stade Jean Dauger di Bayonne ci sono 15 chilometri. 15 chilometri che coprono la più grande rivalità ovale di tutta la Francia e forse di tutta Europa. Se hai giocato in una delle due squadre, la settimana del derby è qualcosa che non potrai mai dimenticare. Nei giorni che precedevano il match, qualcosa cambiava nell’aria: la città si caricava e trasmetteva la sua carica. Il giorno della partita si trasforma in un evento: strade chiuse, sfilata dei carri e della banda…Un enorme festa che ruotava attorno al rugby. Non c’è confronto con i derby che ho giocato poi a Parigi e a Londra. Qui siamo in un’altra dimensione. E citando la capitale, siamo arrivati a Parigi, terzo capitolo.

 

 

Racing

Approdare a Parigi fu un salto molto particolare e, almeno all’inizio, difficile. Venivo da Viadana, L’Aquila e Biarritz, tre ambienti che sportivamente parlando vivono di rugby. Ho avuto un periodo di saudade: il calore lasciato in terra basca, quell’ambiente così caldo, mi mancavano da morire e i primi sei mesi non fu facile ambientarmi. Certo, ero consapevole di cosa lasciavo e di cosa avrei trovato: un ambiente più freddo, una grande città in cui il rugby fa fatica a prendere piede, con distanze importanti. Sapevo che il mio rapporto con l’ambiente rugby sarebbe in qualche modo cambiato, a partire dal legame con i tifosi che non avrei più potuto incontrare per strada: in una realtà come Parigi i tifosi fissi sono davvero pochi e lo spettatore pretende anzitutto di assistere ad uno spettacolo, ad un evento, magari indipendentemente dal tipo di partita o di sport a cui assiste. Sapevo che avrei lasciato quell’idea di club famiglia che era stata decisiva per farmi innamorare di questo sport.

Però quella del Racing era una realtà in ascesa con un progetto importante davanti: ci sono momenti in cui senti l’esigenza, come giocatore ma anche come persona, di fare nuove esperienze e confrontarti con nuove realtà. E’ bellissimo giocare in una piazza calda, dove si respira e si vive di rugby. Ma allo stesso modo è stimolante anche mettersi in gioco dove si stanno gettando le basi per qualcosa di importante, sentirsi parte di un progetto e dare il proprio contributo affinché si realizzi. Quello era il mio obiettivo, aiutare il club a crescere in un contesto freddo e con meno interesse.
Tutt’oggi il Racing fatica a creare un ambiente più caldo e ingaggiare giocatori come Carter serve anche a questo, a smuovere l’interesse e attrarre spettatori. A novembre 2017 sarà pronta l’Arena92 da 30.000 posti a sedere. Ma se non hai prima creato un ambiente, fidelizzato un blocco forte di tifosi, creato coinvolgimento con loro, fai fatica a riempirlo. E manco a dirlo, in questo i club inglesi sono all’avanguardia. Londra, here I came!

 

 

Wasps

O meglio, Londra durante la settimana per gli allenamenti e Wycombe nel weekend per le partite. Una località di 90.000 abitanti della contea del Buckinghamshire, una sessantina di chilometri e una quarantina di minuti ad ovest della City. C’era un forte senso di appartenenza e di legame da parte del territorio e delle persone con la squadra. Vero che ci allenavamo a Londra, ma giocare a Wycombe aveva creato una forte identificazioni con quel posto. Tutto ciò rendeva la mia esperienza londinese abbastanza simile a quella di L’Aquila o Biarritz, più che Parigi. Poi certo, c’erano tutte le differenza del caso: legame con i tifosi solo il giorno della partita, difficoltà di instaurare un rapporto più costante con i compagni di squadra per un discorso di distanze…Tutto era molto dispersivo. Realtà più piccole, come quelle di cui abbiamo parlato, permettono di creare una rete solida non solo tra noi giocatori, ma anche tra le famiglie, con i figli, le mogli o le compagne che diventano amiche. E questo è molto importante e rimanda a quell’idea di club famiglia per me importantissima.
E arriviamo al 2014, quando la nuova dirigenza decide il trasferimento alla Ricoh Arena di Coventry, 125 chilometri a nord di Wycombe. Ma il modo in cui il trasloco è stato gestito e l’occhio di riguardo avuto per i tifosi storici, dimostrano la lungimiranza di chi gestisce e amministra i club inglesi.

Diciamo subito che alcuni tifosi si sono sentiti traditi. Del resto, erano affezionati ad una squadra che di fatto a Wycombe era in un certo senso “ospite”, che si allenava altrove e veniva in paese solo per giocare. E che all’improvviso si trasferisce a due ore di macchina di distanza. Il club si è però attivato per premiare la fedeltà di quei tifosi, che erano rimasti vicini al club anche negli anni difficili tra il 2010 e il 2014. Come? Organizzando pullman gratuiti da Wycombe a

inghilterra rugby

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Coventry, organizzando attività che li coinvolgessero come il barbecue di inizio stagione assieme alla squadra e aperto a tutti… Si cerca di far sentire il tifoso parte integrante del progetto. Anche perché percepire il calore è fondamentale quando si va in campo. La nazionale inglese, ma anche Wasps e Tolone, fa il corridoio in mezzo ai tifosi entrando a piedi a Twickenham: quei 30 metri tra due ali di folla ti caricano. Rafforzano il senso di appartenenza, ti danno un contatto tangibile con i tifosi, senti che dietro di te ci sono persone che amano il club e che sono disposte a fare 125 chilometri per una partita che di fatto è una partita casalinga. Questa passione ti spinge. E’ così che si fa di un semplice club una famiglia allargata. Poi certo, quando sei in campo a certi livelli rimani focalizzato sul tuo compito e badi poco a ciò che avviene sugli spalti: ma la carica emotiva che in settimana e prima della partita un pubblico caloroso è in grado di trasmetterti, è un aspetto che fa crescere la tua attitudine. E se può aumentare la tua performance anche di una percentuale bassissima, è comunque tutto di guadagnato.

 

 

Le sfide delle grandi proprietà

Per chiudere, abbiamo citato il progetto dei Wasps che in pochi anni hanno cambiato stadio e nome. Merito di Derek Richardson, che nell’aprile 2013 ha rilevato un club che non navigava certo in buone acque e lo sta riportando ai massimi livelli. In un primo momento credo che i tifosi, o almeno quelli storici, abbiano guardato con un certo scetticismo al progetto e in generale a ciò che stava accadendo. Ma col senno di poi, credo siano felicissimi di vedere la propria squadra in una posizione solida sia sportivamente che economicamente.

Nel rugby iper professionistico si stanno imponendo le figure dei grandi proprietari, che magari fino a qualche anno fa non erano così diffuse: penso a Mohed Altrad, proprietario di Montpellier e che sta buttando un occhio a Gloucester in Premiership. L’arrivo di un grosso investitore significa che il club può crescere, che si possono portare giocatori e allenatori migliori: con l’occhio del tifoso, non vedo come ciò non possa essere visto in modo positivo. Se una cosa a cui sono affezionato ha la possibilità di evolvere, perché opporre resistenza?

Una cosa però è fondamentale, mantenere sempre lo spirito e il senso di appartenenza, come insegna il caso Wasps. Quando si parla di un progetto importante per il futuro, è bene guardare il punto di arrivo. E pensare al bene del proprio club.

 

di Andrea Masi

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