Rugby e concussion: serve un serio programma di informazione e prevenzione

C’è ancora chi crede che il caschetto protegga dalle commozione cerebrale

rugby e concussion

rugby e concussion

In qualsiasi sport di contatto, la concussion (trauma cranico) è purtroppo un rischio inevitabile. Il rugby (come il pugilato, il football americano le arti marziali miste e tanti altri sport tra cui perfino il calcio) non fa purtroppo eccezione e le commozioni cerebrali stanno diventando una seria preoccupazione quando si tratta del benessere dei giocatori.

Il tema della concussion è diventato particolarmente sentito e dibattuto nel mondo del rugby dopo che nel 2020 otto ex giocatori internazionali, avendo sviluppato un encefalopatia traumatica cronica (demenza precoce), hanno citato in giudizio World Rugby e le loro rispettive union per i danni cerebrali permanenti.

Dopo questa prima iniziativa si sono aggiunti anche tanti altri giocatori (adesso sarebbero oltre 150) e sono emersi diversi altri casi di grandi campioni del recente passato che hanno sviluppato problematiche analoghe. Basti pensare all’ex pilone 41enne degli All Blacks, Carl Hayman che ha raccontato la sua battaglia con l’insorgere dell’encefalopatia traumatica cronica precoce causata dalle concussion. O, ultimo caso in ordine tempo, quello dell’ex capitano del Galles Ryan Jones le cui dichiarazioni sono state riprese da moltissimi media (non solo ovali) in tutto il mondo.

Leggi anche: Ryan Jones, l’ex capitano del Galles: “Ho una forma di demenza precoce. Non so cosa sarà di me”

World Rugby nell’ultimo periodo ha provato a mettere una pezza al problema, avviando uno specifico programma di tutela della salute del cervello dei giocatori d’elite ma anche emanando nuove disposizioni, ad esempio, aumentando la finestra temporale di rientro in campo dopo per i giocatori che abbiano subito un trauma (come potete leggere nel link qui sotto).

Leggi anche: World Rugby: dal 1° luglio arrivano nuove regole per la concussion

Ma è ovvio che questi provvedimenti rappresentano solo un palliativo e soprattutto non vanno a risolvere il problema all’origine, riguardando solo il post concussion. Inoltre tutelano i giocatori d’élite e oltrettutto lo fanno solo in parte. Come sottolineato da molti rugbisti professionisti infatti, i problemi dei traumi cerebrali non si presentano solo in partita, dove comunque i giocatori scossi in seguito ad un impatto vengono sottoposti ad appositi protocolli; ci sono anche (anzi sopratutto) le sessioni di allenamento dove i controlli non sarebbero sempre così attenti e scrupolosi.

Ma ciò che più preoccupa e dovrebbe preoccupare World Rugby è sopratutto il rugby dilettantistico e giovanile. Le strade potrebbero essere due. Apportare qualche adattamento alle regole, almeno per i più piccoli di età e per le categorie minori, dove gli atleti hanno una preparazione fisica e tecnica tale da renderli più vulnerabili. E cosa più semplice e immediatamente fattibile intraprendere una serie attività di divulgazione, sensibilizzazione e formazione di giocatori e allenatori sulle strategie per effettuare e subire placcaggi e colpi in sicurezza.

Indossare il caschetto non protegge dalle commozioni cerebrali

Un esempio su tutti per quello che riguarda la sensibilizzazione e la conoscenza del problema ce lo fornisce il tweet riportato qui sotto e pubblicato dal giornalista gallese Robert Rees che, per chi non masticasse l’inglese, recita: “Dopo la vicenda di Ryan Jones molti commenti (per lo più su Facebook) affermano che per i giocatori di rugby dovrebbero essere obbligatori i caschetti. Mettiamolo in chiaro. Le protezioni per la testa non prevengono le lesioni al cervello” (scritto in maiuscolo, ndr).

 

Questo dimostra che molti appassionati – ma vale anche molti giocatori e genitori – credono che indossando il caschetto protettivo si abbia una protezione dalle lesioni alla testa. Invece questo equipaggiamento protettivo ha dei seri limiti e anzi una ricerca ha addirittura evidenziato che potrebbe fare più male che bene.

Emerge infatti che il caschetto non offre affatto una protezione significativa contro le concussion. E’ ideale per proteggere le orecchie e ridurre le lesioni superficiali alla testa (lacerazioni e abrasioni) ma non le commozioni cerebrali che derivano dal colpo di frusta neurale, “per cui l’intera testa subisce un movimento brusco che danneggia il cervello e/o crea ematomi”.

Come risulta dallo studio i tassi di commozione cerebrale tra i giocatori che indossavano e non indossavano i caschetti non solo non presentano sostanziali differenze ma, al contrario, il 63% di chi lo indossava è stato soggetto a commozioni cerebrali rispetto al 55% di chi non lo indossava.

Il caschetto da ad alcuni giocatori un falso senso di sicurezza ragione per cui è più probabile che si comportino in modo imprudente in campo. I dati hanno rilevato che il 67% dei giocatori delle giovanili si sentiva più sicuro e in grado di affrontare più duramente gli imaptti, mentre il 16% dei giocatori senior credeva addirittura che con il caschetto fosse protetto contro le commozioni cerebrali.

Il dottor Mike Loosemore, medico della squadra di boxe britannica e membro di spicco del team medico alle Olimpiadi di Londra nel 2012, ha spinto e ottenuto perché nella boxe amatoriale non si indossassero più i caschetti proprio per questa ragione: “I copricapi danno un’illusione di sicurezza. Se pensi di essere protetto da un caschetto, è più probabile che metta la testa dove non dovresti.” sostiene Loosemore.

A partire dai Giochi Olimpici di Rio 2016, dopo una serie di ricerche, la International Boxing Association ha così deciso che nel pugilato amatoriale maschile fossero eliminati i caschi.

Prevenire la commozione cerebrale nel rugby deve essere l’obbiettivo

Come abbiamo già accennato sopra il vero traguardo è prevenire e limitare il più possibile il problema della commozione cerebrale nel rugby (e non solo nel nostro sport). E, non potendo snaturare sport che si basano sul contatto fisico, la prima cosa da fare è istituire un serio programma di educazione sportiva continuativa per far sì che giocatori, allenatori e dirigenti ricevano un’adeguata (in)formazione sulle strategie e i metodi per affrontare in sicurezza i placcaggi – anche a seconda delle fasce di età – con tanto di allenamenti ed esercizi specifici.

In Nuova Zelanda e Sudafrica esistono due programmi (RugbySmart e BokSmart) con tali obiettivi e l’introduzione di Boksmart ha contribuito a ridurre del 40% gli infortuni più gravi tra giovani. Si può fare meglio? Si può fare di più? Probabilmente si, l’importante è muoversi subito per la sicurezza di tutti coloro che già praticano e per evitare che il rugby venga bollato come uno sport pericoloso.

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