Rivincite, rimonte e riscatti: il 2021 è stato l’anno della fenice

Tre momenti dell’anno contraddistinti dalla resurrezione: dall’oblio sportivo, dal proprio passato o da un passivo pesante

Morne Steyn 2021

Morné Steyn – ph. Christiaan Kotze / AFP

Dal punto di vista della palla ovale, il 2021 è stato l’anno della fenice, l’animale mitologico capace di risorgere dalle proprie ceneri.

Tre delle storie cruciali, fra le più appassionanti di questo strano anno rugbistico, sono state contrassegnate da clamorosi ritorni: quello di Morné Steyn, mediano di apertura del Sudafrica, nel ruolo di giustiziere dei British & Irish Lions 12 anni dopo il tour del 2009; quello di Quade Cooper, numero 10 australiano, precoce talento altrettanto subitaneamente caduto in disgrazia; quello degli Harlequins alla vittoria del campionato inglese, contrassegnato dalle rimonte operate dalla squadra di Marcus Smith, in particolare nella storica semifinale contro i Bristol Bears.

Morné Steyn

La partita è inchiodata sul 25-25. Mancano 30 secondi al minuto 80. Ronan O’Gara spara in cielo un up and under e commette un fallo stupido e banale placcando in aria Fourie du Preez poco oltre la linea di metà campo. Il resto è storia: Christophe Berdos fischia la punizione, il Loftus Versfeld di Pretoria prorompe in un grido di esultanza sapendo di avere dalla propria il cecchino perfetto per chiudere il match.

Si tratta di Morné Steyn. La sua pedata potente e precisa, sospinta dal clamore del pubblico e favorita dalla rarefazione dell’aria ai 1271 metri sul livello del mare a cui si trova Pretoria, finisce in mezzo ai pali e sancisce la sconfitta dei British & Irish Lions nel tour in Sudafrica del 2009.

Non era così complesso il calcio che, 12 anni dopo, ha sancito la medesima conclusione al tour dei Lions ad opera dello stesso Morné Steyn. Eppure l’importanza e la carica simbolica del momento ha strappato più di un applauso e un sorriso ai tifosi di tutto il mondo.

Steyn non è stato il più amato dei giocatori: non ha mai posseduto il genio di certi numeri 10, né la cattiveria fisica tipica del rugby sudafricano. Anzi, è un’apertura con dei difetti: regia precisa ma dimessa, senza attaccare troppo la linea; fase difensiva non indimenticabile.

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Forse per questo la sua parabola sembrava tramontata presto. Prima scelta degli Springboks tra il 2009 e il 2013, poi passato in Europa allo Stade Français, con un ruolo da solido protagonista, ma non da irrinunciabile, nelle 7 stagioni a Parigi.

Nel 2020 il ritorno in Sudafrica, ai Bulls, e la progressiva riscoperta. Alle prestazioni in Super Rugby si abbina la necessità degli Springboks di trovare nuove chiocce, sullo stampo di quanto fatto da Schalk Brits e François Louw al mondiale. L’aura da talismano diventa una profezia che si autoavvera nell’ultimo quarto d’ora del terzo test, con il punteggio sul filo del rasoio: Jacques Nienaber lo butta nella mischia, lui è lì per fare quello. Minuto 79, calcio di punizione centrale, dai 35 metri. Il finale lo sapete.

Quade Cooper

Anche chi non lo ha mai amato, non poteva non apprezzare il Quade Cooper dei Reds vincitori del Super Rugby 2011: un giocatore con uno strapotere fisico e tecnico rispetto a qualsiasi avversario, capace di interpretare il ruolo del numero 10 in maniera moderna, addirittura precorrendo i tempi rispetto all’evoluzione dei protagonisti in quella posizione.

Un mago con una valigetta dei trucchi che sembrava essere pressoché infinita finì per incartarsi relativamente in fretta nella sua ricerca ossessiva della giocata, nell’enorme pressione messa sulle sue spalle per fare costantemente la differenza.

In Inghilterra li definiscono maverick, questi giocatori un po’ genio e sregolatezza, croce e delizia. Spesso, non la ricetta migliore per il rugby internazionale, dove conta piuttosto la capacità di non fare errori.

La carriera in nazionale di Quade Cooper si era interrotta nel 2016, con il trasferimento al Tolone. Quindici partite in Francia, poi il ritorno in Australia nel tentativo di ottenere una convocazione alla Rugby World Cup 2019 che non arriverà, anche perché nessuna franchigia del Super Rugby se la sentirà di puntare davvero su quello che appare un giocatore prematuramente tramontato a soli 30 anni.

Nel 2019 Cooper va in Giappone e sparisce dai nostri radar ovali, ricomparendo episodicamente per qualche story di Instagram dove mostra skills tanto sorprendenti quanto frivole. Nel frattempo, alla guida dei Wallabies arriva Dave Rennie, head coach con il compito di risollevare le sorti della nazionale. Il nuovo tecnico manda in campo tanti nuovi giovani, lancia il classe 2000 Noah Lolesio con il numero 10.

Presto, si accorge che alla sua Australia manca la guida di senatori esperti, che possano fare da contraltare ai tanti giovani promettenti. Michael Hooper da solo non basta, e allora ecco che negli ultimi tempi abbiamo visto il ritorno in squadra di Kurtley Beale, di Samu Kerevi e di Quade Cooper.

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La sua inclusione sembrava dovesse essere il classico anziano che fa da chioccia al giovane di belle speranze, ma il 12 settembre, dopo aver ricevuto sonori schiaffi dagli All Blacks, Rennie manda in campo contro il Sudafrica il 33enne nativo di Auckland. Titolare, maglia numero 10.

Risultato: prestazione esemplare. Non sembra neanche lo stesso giocatore, addirittura la stessa persona, di cinque anni prima. Cooper ha perso qualcosa dal punto di vista dello smalto fisico, lo step mortifero di una volta non esiste più, ma ha un controllo totale sulla squadra e sulla partita. Tira i fili della squadra con una freddezza mentale che è l’esatto opposto del Cooper caldo al quale eravamo abituati. La fragilità nella sfida individuale contro i pali che lo caratterizzava è scomparsa: c’è un cecchino zen dalla piazzola, e il Sudafrica campione del mondo cade sotto i colpi del suo 8/8, con l’ultimo calcio che arriva nel recupero della partita per il sorpasso decisivo che decide l’incontro.

Non finisce qui: nelle tre partite successive Cooper dimostra che non si trattava della proverbiale rondine che non fa primavera. Nella seconda partita del Rugby Championship con il Sudafrica e nelle due contro l’Argentina, Cooper è ancora titolare, ancora decisivo, ancora in uno stato di grazia totale, come se in qualche modo avesse raggiunto una sorte di illuminazione.

Harlequins v Bristol

Sembrava finita.

In 38 minuti gli Harlequins avevano segnato 0 punti, i Bristol Bears padroni di casa, vincitori della regular season di Premiership, erano a quota 31, con le mete di Ben Earl, Max Malins (2) e Luke Morahan e un calcio di punizione segnato da Callum Sheedy.

Nessuna squadra era mai tornata sotto da un tale svantaggio. Poi, a un minuto dalla pausa, si accende il fuoco di Alex Dombrandt, uno di quelli che ha bruciato con più veemenza nel corso delle ultime due stagioni di Premiership.

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Il massiccio terza centro sfrutta un errore in una presa al volo e va in fuga solitaria per 50 metri. Vale come una sorta di segnale: scatenate l’inferno.

E così sarà nei secondi quaranta minuti: Marcus Smith innesca tutte le frecce all’arco dei Quins, segnano Tyrone Green, Louis Lynagh, Joe Marchant. All’ottantesimo è 31 pari, gli arlecchini hanno restituito pan per focaccia.

Già un miracolo per una squadra data per morta a gennaio, quando le dimissioni di Paul Gustard avevano agitato le acque allo Stoop, dopo un’avvio di campionato non certo memorabile.

La cavalcata, invece, non finisce qui. Nei tempi supplementari Bristol segna per prima, ma gli Harlequins rimontano e superano al minuto 100 di una partita straordinaria. Una partita di quelle che ti dice che puoi fare tutto, e infatti replicheranno solamente una settimana più tardi contro Exeter, vincendo il loro secondo titolo d’Inghilterra.

Lorenzo Calamai

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