Monumenti: Hugo Porta

Uno dei mediani d’apertura più forti di tutti i tempi, leader dell’Argentina che sconvolse il mondo ovale

Hugo Porta – AFP

Può sembrare paradossale, ma per parlare del più grande rugbysta che l’Argentina abbia mai prodotto si può partire da due situazioni che derivano da posti lontani dal Sud America. Uno, e noi italiani lo conosciamo bene, e quello di generacion dorada: gli azzurri degli anni ‘90, quelli che ci permisero di bussare con una bella mano di carte al tavolo del 6 Nazioni. E cos’era quella nazionale argentina se non una squadra fortissima, che aveva in Hugo Porta il suo leader maximo? Un sublime mediano d’apertura che, con uno stile di gioco che sembrava arrivare dal futuro, trascinò i compagni a risultati mai più ripetuti per tanti altri anni. L’altro ramo al quale aggrapparsi arriva dalla Nuova Zelanda: sono state solo 7 le Nazioni (o le selezioni, visto che nel conto sono compresi anche i Lions) capaci di battere gli All Blacks, mentre una ci ha pareggiato. Quest’ultima è proprio l’Argentina, in quella che è sicuramente definibile come una delle due più clamorose imprese della banda guidata dall’architetto, ex-calciatore, poi ministro e ambasciatore, Hugo Porta.

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Una vita tutt’altro che ordinaria per un argentino

Nato a Buenos Aires nel 1951, come un’infinità di suoi conterranei praticò anche il gioco del fùtbol in gioventù, arrivando a un passo dal poter entrare nelle giovanili del Boca Juniors, ma declinando la scelta per dedicarsi al rugby (decisione sempre osteggiata dal padre), altro sport presente da tanti anni nei dintorni del Rio de La Plata dopo la semina inglese degli scorsi secoli. Ebbe una sola squadra di club in carriera, il Club Banco Nacion di Florida con la quale ha vinto due volte il titolo nazionale. Poco conta però, perché nel rugby degli anni ‘70 era più che mai la dimensione internazionale a dare prestigio a un giocatore, a sancire se questo avesse le possibilità di entrare nei libri di storia di ovalia. L’esordio con la maglia dei Pumas di Porta avvenne un mese dopo il suo ventesimo compleanno contro il Cile, quindi disputò altre gare contro le poco temibili contendenti sudamericane dove comunque c’era modo di farsi le ossa. Col passare degli anni, e con la crescita del gruppo intorno a lui, la Nazionale argentina riuscì a cementare una squadra davvero solida, nella quale la maglia numero 10 era ormai diventata proprietà privata, e lo sarebbe stata praticamente per due decadi fino al 1990. Era ancora un’epoca di “spocchia”, dove molte squadre non concedevano il cap nelle sfide contro i sudamericani, ma quando nel 1977 Porta divenne capitano dei biancocelesti, le cose stavano iniziando a cambiare. Quell’anno la Francia, che aveva appena vinto il 5 Nazioni con un sonoro Grande Slam, andò in tournée in Argentina, e oltre a cinque partite contro delle selezioni, erano in programma anche due test match. Due veri test match, nei quali i transalpini schierarono la loro artiglieria pesante: la vittoria per 26-3 nella prima sfida del 25 giugno faceva intravedere distanze troppo ampie da poter riempire, anche per quei Pumas che tanto si stavano sbracciando per farsi notare dal resto del mondo. Una settimana più tardi però, la storia si capovolse, e al Ferrocarril Oeste i sudamericani riuscirono a strappare un clamoroso pareggio per 18 a 18. Tutti i loro punti, manco a dirlo, furono segnati da Hugo Porta, autore dei 6 piazzati che hanno permesso di pareggiare il conto con gli altrettanti calci di Jean-Michel Aguirre. La sfida ormai era lanciata, e quella straordinaria armata era pronta a sconvolgere delle gerarchie che sembravano solide come un monolite. Questo nonostante erano ben pochi i momenti di confronto tra le squadre dei diversi emisferi, anche se le altre grandi nazionali stavano iniziando ad accorgersi del nuovo che avanzava, iniziando così a dare valore ufficiale ai test.

In questo video una raccolta di magie di Hugo Porta

Australia superata e Inghilterra bloccata, adesso i Pumas fanno sul serio

Entra dunque nella storia, dalla porta principale, il tour che l’Australia fece in Argentina nel 1979: dopo aver vinto cinque sfide contro le selezioni, i Wallabies sfidarono i Pumas il 27 ottobre, uscendone però con le ossa rotte. Due mete di Madero, una conversione, una punizione e soprattutto tre drop dell’ineffabile Porta confezionarono il 24-13 finale per i sudamericani. Un messaggio chiaro e tondo mandato in giro per tutta Ovalia, che per poco non si replicò una settimana dopo, quando nel secondo scontro gli australiani vinsero “solo” per 17-12, con 8 punti dei padroni di casa marcati dal loro ineffabile numero 10. Ormai il dado era tratto, e quella squadra aveva la consistenza per impegnare tutte le grandi dell’epoca, trascinata da un mediano di apertura che si stava sempre più dimostrando come uno dei migliori specialisti al mondo nel suo ruolo, cosa impensabile fino a poco prima contando che non usciva da nessuno dei movimenti che hanno fatto la storia di questa disciplina. Di lui Michael Lynagh, non l’ultimo della pista, disse: “Puoi solo provare a fare il tuo meglio per fermarlo, ma a volte non basta e allora devi solo ammirarlo digrignando i denti, perché lui riesce a fare sempre quello che ha in testa”. John Reason, storico corrispondente per il Telegraph, esaltava le doti di Porta in questo modo: “Anche se gioca vicino alla difesa riesce a non venire placcato, sembra di assistere allo show di un matador contro dei tori”. Tutto questo va unito ad un’intelligenza rugbystica non comune, oltre che ad una estrema precisione al calcio, sia di spostamento che piazzato. Era dunque perfetto per una squadra che puntava sulla forza più che sullo spettacolo per sconvolgere gli avversari, sorpresi dalla forza di questi ragazzoni argentini che davvero sembravano non sbagliare niente. Si salvò per un pelo l’Inghilterra, che nel primo test ufficiale, il 30 maggio 1981, impattò sul 19-19 a Buenos Aires, con lo score di Hugo Porta che come sempre era misto: drop, calci piazzati e trasformazioni gli permettevano di punire in egual misura ogni avversario.

I due tour nel Sudafrica odiato da tutti. La leggenda è scritta

All’alba del 1982 quasi tutte le “grandi” erano state messe sotto dai Pumas, e togliendo dal conto il Galles (che giocherà la prima sfida ufficiale solo nel 1991 in Coppa del Mondo) restavano fuori dal giro Sudafrica e Nuova Zelanda. C’era però un problema, un enorme inghippo internazionale: gli Springboks negli anni ‘80 vivevano il pieno della loro folle politica di apartheid, e il resto del mondo era sempre più ferreo nelle misure contro quella che in futuro diventerà la Rainbow Nation. Nessuno praticamente veniva autorizzato a giocare contro di loro, ma nel 1980, e soprattutto nel 1982, si trovò un escamotage: la federazione argentina, decisamente interessata ai soldi offerti dai sudafricani per andare a sfidarli, riunì le altre nazioni del continente e originò i Jaguars, una selezione teoricamente mista (per le gare con le selezioni) e praticamente argentina (per i test contro i Boks). Nel primo tour, con Porta capitano della squadra, i padroni di casa si imposero in entrambe le occasioni (24-9 e 18-9), ma quello che interessa è il secondo, quello del 1982. Nessun archivio ufficiale riporterà mai l’ufficialità delle sfide tra i sudafricani e la selezione sudamericana, ma in sostanza fu effettivamente così. Dei 42 giocatori che viaggiarono verso il Sudafrica, quelli provenienti da Cile e Uruguay erano praticamente una “foglia di fico”, convocati per le partite contro le locali selezioni provinciali. Il primo vero clash si giocò a Pretoria il 27 marzo 1982, con gli occhi del resto del mondo rugbystico che erano furenti verso le due squadre. Da una parte il conclamato razzismo dei bianchi sudafricani, dall’altra un paese in mano ai generali che si stava preparando a una guerra senza senso. Insomma, non proprio il miglior clima per fare un’impresa. Che infatti non arrivò, dato che dopo aver retto nel primo tempo i Jaguares (o Pumas mascherati) vennero travolti fino al 50-18 finale, coi padroni di casa capaci di segnare 8 mete urlando in faccia agli avversari la loro presunta superiorità. La seconda sfida si sarebbe giocata a Bloemfontein una settimana dopo, il 3 aprile 1982, una data non come le altre dalle parti di Buenos Aires. La notte precedente, al culmine di un delirio di onnipotenza (questa sì presunta) i leader sudamericani ordinarono l’attacco alle Isole Falkland, minuscolo possedimento inglese al largo delle cose argentine che secondo loro andava in qualche modo rivendicato. Una guerra che si rivelerà disastrosa tanto quanto la sconfitta subita dagli inglesi (almeno per una volta), il cui inizio mise in dubbio la disputa della partita che alla fine si giocò. Gli argentini, con la testa collegata solo al campo ovale, erano affamati di vendicare la dura lezione subita poco prima. La partita di Porta fu semplicemente mostruosa: 21 punti segnati, tutti quelli messi a segno dalla rappresentativa sudamericana, compresa una meta su offload del compagno Negri. Il resto lo fece la difesa Jaguares, concedendo agli avversari solo la meta di Gerber e due calci piazzati di Naas Botha. La storia era fatta, e anche il Sudafrica era caduto: il 21-12 come detto non entra nei libri di statistiche, ma fu l’ennesimo segnale di una squadra che era sempre più in grado di sconvolgere equilibri solidi come rocce. Per questo ha senso parlare di generacion dorada, di una squadra che nel giro di 4 anni ha battuto Australia e Sudafrica, pareggiato con Francia e Inghilterra, dimostrando di potersi sedere a tavoli importanti.

Il racconto per immagini della storica vittoria del 1982 in casa del Sudafrica, piegato 21-12 dai Jaguares

Il 1983 vide poi il secondo grande successo in trasferta, con i Wallabies ancora piegati, questa volta a Ballymore, per 18-3, quindi due anni più tardi nel mese di giugno la Francia venne piegata per 24-16 nei test estivi.

Cadranno anche gli invincibili All Blacks?

Superato il Sudafrica, ne mancava solamente una, ed è facile da indovinare: gli All Blacks, che nelle partite giocate nel 1976 e 1979 schierarono la Nuova Zelanda XV, non riconoscendo il cap e l’ufficialità all’evento. Questo era ormai destinato a cambiare, e nell’autunno del 1985 dopo non essere potuti andare in Sudafrica per il ban imposto dal resto del mondo agli Springboks, scelsero l’Argentina come loro meta.

La sfida (senza cap) dell’8 settembre 1979, vinta 18-9 dal New Zealand XV

Sbarcati in Sud America, praticamente con la squadra che da lì a breve avrebbe vinto la prima Coppa del Mondo ovale, ottennero delle facili vittorie contro i club, e nella prima delle due sfide ufficiali si imposero per 33-20 il 26 ottobre. Una settimana dopo, lo stadio Ferro Carril Oeste vide la ripetizione del duello, ma questa volta le cose andarono in modo diverso. Fa quasi impressione pensarlo ora, dato che gli All Blacks schieravano giocatori come Crowley, Kirwan, Green, Smith, Mexted, mentre l’eco dei nomi argentini era sicuramente molto minore. I Pumas avevano però Hugo Porta dalla loro, e quasi come fosse un numero magico, l’eroe dalla maglia numero 10 ripete l’impresa fatta col Sudafrica marcando 21 punti, costruiti con 4 piazzati e 3 drop. Anche i tutti neri ne segnarono 21, con due mete di Kirwan e una a testa per Mexted e Green, con la sfida che viveva di un equilibrio perfetto. L’ultima azione incendiò lo stadio porteno, con i Pumas che si potevano giocare una mischia a pochi passi dalla linea di meta avversaria: palla vinta e spinta decisa, ma quando il terza centro Ernesto Ure alzò l’ovale per atterrare in paradiso la perse in avanti, decretando la fine della partita e del sogno di battere gli invincibili. Porta dirà che in nessun modo provò rabbia verso il compagno per quell’errore, sottolineando comunque l’importanza di quanto fatto quel giorno. Anche perché non si ripeterà più, almeno fino ad oggi, un risultato come quello, coi Pumas sempre sconfitti nei 26 incontri giocati in seguito con i neozelandesi.

I giocatori argentini rivivono i loro ricordi della sfida del 1985 con la Nuova Zelanda, terminata 21-21

Con quei 21 punti chiave per lo storico pareggio, Porta mise tanti mattoncini (lui che da buon architetto se ne intende) per vincere l’Olimpia de Oro del 1985, il premio riservato al miglior sportivo d’Argentina. Non solo del rugby, ma di tutte le discipline, dunque il risultato è ancor più clamoroso se contiamo che dalle parti di Napoli c’era un riccioluto con la maglia numero 10 che giocando a calcio qualche testa la stava facendo girare. Una soddisfazione decisamente meritata per il più grande mediano d’apertura della storia sudamericana, al culmine di una carriera nella quale aveva esaltato la sua nazionale, che in nemmeno un decennio si era dimostrata pari o superiore a tutte le potenze di ovalia.

La fine del sogno ovale e l’inizio di quello politico

A 36 anni arrivò poi anche la volta della Coppa del Mondo, con una squadra ormai stanca che riuscì a battere solo l’Italia 25-16, perdendo contro Fiji (9-28) e Nuova Zelanda (46-15), chiudendo il cammino nel girone. Porta decise di ritirarsi dalla carriera internazionale dopo quel Mondiale, ma nel 1990 tornò per un ultimo giro di giostra contro Irlanda, Inghilterra e Scozia, prima del definitivo saluto alla maglia dei Pumas, indossata con grande orgoglio dal 1971 per 58 volte (in gare ufficiali) con 590 punti messi a segno. Una volta chiusa definitivamente la sua carriera rugbystica, ha ricoperto cariche istituzionali di grande importanza, come a sottolinearne ancora una volta il peso specifico nella storia del suo paese. Già l’anno seguente, nel 1991, fu nominato come ambasciatore per l’Argentina in Sudafrica, mentre nel 1994 divenne Ministro dello sport nel paese sud americano, quindi nel 2008 è stato ufficialmente introdotto nella Hall of Fame di World Rugby. Insomma, una vita sempre da primo della classe, per quello che forse è il più grande numero 10 della storia ovale.

Hugo Porta racconta…Hugo Porta

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