Essere Beatrice Rigoni

Siamo entrati nel mondo della fuoriclasse azzurra. Una che appare poco ma si sente tanto

Beatrice Rigoni

Beatrice Rigoni – Valsugana Rugby Padova (ph. Ettore Griffoni)

Nella serie di relive messi a disposizione dalla Federugby nel corso delle ultime settimane, sabato è andata in scena la vittoria dell’Italdonne sulla Francia – nella quinta giornata del Sei Nazioni 2019 -, dello scorso marzo a Padova. Uno dei passaggi, di fatto, più importanti nella storia del rugby femminile (e non solo) italiano.

Il successo netto, largo almeno in termini di punteggio (31-12, il finale), tuttavia, nonostante una prestazione notevole delle azzurre ed una Francia non al suo meglio, è rimasto in bilico sino al 70′, fino alla fiammata decisiva di Beatrice Rigoni, 24enne fuoriclasse del Valsugana, nonché una delle grandi leader silenziose del team italiano. Una che, per sua indole, tende ad apparire poco, ma il cui peso carismatico si sente molto, dentro e fuori dal campo, nel contesto azzurro.

La nativa di Abano Terme (PD) – inserita da Scrum Queens nel XV ideale di quel torneo, assieme alle compagne Giada Franco e Manuela Furlan – con una finta di passaggio all’esterno, ben portata, taglia fuori il recupero di Tremouliere, prende l’interno di Menager e vola sin oltre la linea di meta, portando le azzurre a distanza di doppio break (26-12 momentaneo, prima della quarta meta, del bonus e del secondo posto finale nel torneo, firmata da Furlan), con un’accelerazione palla in mano peraltro simile a quella con cui aveva sigillato la vittoria in Scozia, poche settimane prima.

“Sembrava che non arrivassi mai oltre la linea di meta, mi dicono in molti… e invece. Mi prendono spesso in giro per questa cosa, ma non si capisce bene il perché (sorride, ndr). Ho fatto vedere tutta la mia resistenza alla velocità in quegli ultimi metri di campo che mi separavano dalla linea tanto adorata”, racconta Beatrice, rimembrando la corsa che l’ha portata a marcare una delle mete più importanti della sua carriera e della storia azzurra.

Una marcatura pesante, epitome dell’Italdonne di Andrea Di Giandomenico. “Sicuramente ci ho messo anche tanto di mio, ma se sono arrivata nelle condizioni di incidere in quel frangente è stato grazie al lavoro di tutta la squadra. Quell’azione me la ricordo benissimo, senza bisogno nemmeno di rivederla. Lavoriamo bene in chiusa, ed in prima fase buttiamo dentro Manu (Furlan, ndr) per una carica, con Michi (Sillari, secondo centro delle Valsugirls, ndr) – della quale ho sempre pensato fosse la giocatrice più forte in Italia, quest’anno, vedendola da vicino tutti i giorni, posso confermare di averci visto lungo (sorride, ndr) – che pulisce alla grande.

In seconda fase, poi, cambiamo passo, fino all’assistenza di Veronica (Madia, ndr) che con il suo consueto timing perfetto di passaggio mi serve, assorbendo il difensore e permettendomi così di fare la differenza in una situazione già favorevole”, prosegue Beatrice – dalle cui parole traspare sempre grande modestia, oltremodo autentica -, utilizzando poi tale episodio anche per spiegarci quale sia il ruolo in cui si trova meglio.

“Per esigenze diverse, mi ritrovo spesso a giocare da mediano di apertura, ma la posizione che sento maggiormente mia è quella da numero 12, diciamo da secondo playmaker. L’apertura deve essere brava a crearsi da sola un vantaggio, il primo centro invece, tende a ricevere palla con la difesa già leggermente mossa, una situazione simile a quella descritta in precedenza, che si sposa meglio con le mie caratteristiche da attaccante. Poi, in difesa mi piace troppo placcare, ed inevitabilmente, in mezzo al campo, hai più opportunità per farlo nel corso di una partita (sorride, ndr).

Ecco perché non vedo l’ora che Meddi (Veronica Madia, apertura titolare delle azzurre nell’ultimo biennio, ndr) torni al più presto (sorride, ndr) a disposizione. Tra l’altro nel corso delle partite, una è l’ancora di salvataggio dell’altra, a turno. Ci sproniamo a vicenda nei momenti difficili, ci teniamo su. E poi ha questa accuratezza nell’esecuzione del passaggio che ti semplifica la vita”, spiega entrando nel dettaglio del rapporto con la collega di reparto colornese, simile, tra l’altro, a quello che può vantare con il resto delle colleghe.

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Punto di riferimento

Beatrice è una delle anime tecniche, sul campo, del XV di Di Giandomenico, ma stando anche a quanto sostengono numerose compagne, la sua importanza è imprescindibile pure fuori dal rettangolo verde. Una persona con una bonomia di fondo con pochi eguali, ed una capacità unica di armonizzare il clima generale nel corso dei ritiri, aiutando soprattutto le giovani ad inserirsi in un contesto nuovo.

“Per anni sono stata la più piccolina nel gruppo. Giuli (Giuliana Campanella, la team manager azzurra attuale, nonché ex compagna in campo di Rigoni, ndr), per indicare il mio posto in spogliatoio, attacca ancora una targhetta il soprannome ‘picciridda’. Ho imparato tantissimo dalle più grandi, nel bene e anche nel ‘male’, prendendo pure delle bastonate ‘memorabili’. Se però certe sgridate arrivano da persone di cui ti fidi, di cui percepisci carisma ed autorevolezza, anche se lì per lì magari non capisci, alla lunga ti rendi conto di quanto bene ti abbiano fatto. Senza nemmeno pensarci troppo, nelle ultime stagioni, quando nel gruppo sono entrate tante ragazze giovani, per me, e penso anche per le altre senatrici, è stato naturale, ricordandoci di come siamo state accolte a nostro tempo, fare in modo che chi si approcciasse con il contesto azzurro, le prime volte – consce delle tensioni e delle preoccupazioni che puoi avere a 18/20 anni – vedesse in noi, sin da subito, un punto di riferimento positivo, un sostegno, un appiglio negli eventuali momenti difficili.

Questo concetto vale anche in campo. Soprattutto quando in difesa sono schierata nel triangolo arretrato, cerco di dare le giuste direttive alle ragazze che sono sulla linea. E’ un modo per sgravare dalle loro spalle uno sforzo mentale. Lo faccio usando i giusti toni, e possibilmente le parole migliori al momento migliore. Facile sfociare in un battibecco, sotto tensione, se non hai il giusto approccio in questo senso”, approfondisce Beatrice, rivelandoci scherzosamente come essere dalla parte delle veterane possa avere i suoi vantaggi.

“Ad ogni modo, se non crei simbiosi, nel gruppo – soprattutto con le dinamiche di una selezione, diverse da quelle del club -, diventa tutto più difficile. Ecco perché tra l’altro, assieme a Sofi (Sofia Stefan, compagna di mille battaglie tra azzurro e Valsu, ed amica di vecchia data, ndr), a tal proposito, per far sì che i tempi morti dei raduni trascorrano in modo più divertente (sorride, ndr) ci inventiamo dei tormentoni ogni anno. Da canzoni simpatiche ad alcuni gesti ripetuti in continuazione, come quello del pistolero in azione contro tutti – simile, ma non uguale a quello con cui mi approccio all’esecuzione di un calcio -, con cui abbiamo letteralmente fatto impazzire qualche compagna nel corso degli anni (ride soddisfatta, ndr). Sono certa, però che questo genere di iniziativa abbia avuto per lo più riscontri positivi”.

Sdrammatizzare, anche e soprattutto ora

Una capacità, quella di unire e tenere vive relazioni positive, che è di fondamentale importanza in un momento come quello attuale. “Avevamo iniziato molto bene il Sei Nazioni in Galles. Nonostante un brutto avvio, all’Arms Park, in avvio di ripresa abbiamo deciso, come spesso ci succede, che avremmo vinto quella partita. C’è stato un momento esatto in cui abbiamo alzato il volume della musica e benché l’eccessiva foga messa in campo avrebbe potuto costarci caro, abbiamo portato a casa il successo senza esitazioni. Dopo la gara così così in Francia – anche se quel contesto dobbiamo ancora capire come maneggiarlo -, eravamo pronte all’attesa sfida con le scozzesi.

Invece, stiamo vivendo una situazione davvero difficile da descrivere. Siamo state di fatto tra le prime in Italia, ancora inconsapevoli del pandemonio che stava per scatenarsi, ad aver impattato con l’emergenza sanitaria, in quel di Legnano. Eravamo nell’epicentro, almeno all’epoca, del ‘tornado’, di fatto ‘quarantenate’, isolate in ritiro, e si percepiva già dai giorni precedenti all’incontro che ci fosse il rischio di non poterlo giocare. Al sabato sera, poi, guardando i telegiornali, sentendo del calcio che avrebbe cancellato le partite di Serie A per quel weekend, abbiamo capito che sarebbe toccato pure a noi. Però, lì per lì, eravamo deluse il giusto, anzi. Quella domenica ci siamo pure divertite facendo altro, anche perché eravamo certe che ci saremmo riviste a breve. Niente di più lontano da quanto realmente accaduto purtroppo (sogghigna amaramente, ndr), perché non ci siamo mai più riviste tutte assieme, almeno dal vivo. Proviamo, per quanto possibile, a tenerci in contatto e divertirci attraverso questi mezzi super tech, che ho imparato ad apprezzare molto in queste settimane”, continua Rigoni, che, invece, sul piano fisico, nonostante qualche preoccupazione fisiologica, è piuttosto serena.

“Al Valsu abbiamo uno staff talmente preparato a 360 gradi, su tutti i fronti, da quello tecnico a quello della mera preparazione atletica, che, per la velocità con cui ci ha redatto un nuovo piano di lavoro, è come se avesse già previsto un’eventualità del genere: la sera stessa in cui si è dovuto chiudere tutto avevamo già ricevuto un programma personalizzato. Siamo state seguite, come sempre, nel minimo dettaglio, anche via video. Allenarsi senza un vero e proprio obiettivo definito sullo sfondo – con i campionati cancellati, in attesa di capire che ne sarà del Sei Nazioni e quando si potranno disputare le qualificazioni Mondiali -, anche fisiologicamente, non è e non potrà mai essere la stessa cosa, se paragonato all’ordinaria attività che svolgi nel corso di un campionato”.

Da dove viene e dove vuole andare

Bea e compagne, così, si faranno sicuramente trovare pronte non appena ci sarà un via libera al ritorno in campo, con un obiettivo enorme che si staglia all’orizzonte, a cui, peraltro, è legato uno dei ricordi più intensi della carriera della trequarti azzurra.

“Quello della partecipazione alla rassegna iridata in Nuova Zelanda è un obiettivo che è difficile togliersi dalla testa. Anche perché c’è il desiderio di tornare a vivere emozioni speciali, quelle che solo una Coppa del Mondo può regalarti. Porto nel cuore tante battaglie della mia carriera, come la finale del primo scudetto con il Valsu (nel 2015, il primo di tre titoli italiani consecutivi, ndr), o la vittoria di Padova contro la Francia, ma probabilmente nessun incontro mi ha mai lasciato in eredità ricordi pari a quelli di Italia v Spagna, atto II, al Mondiale 2017.

Quella partita, vinta alla ‘golden try’ nei supplementari, è rimasta nei nostri cuori, anche a distanza di anni, nonostante capisco che da fuori possa essere sembrata ‘solamente’ una finale per il nono posto. Si trattò di qualcosa di speciale per due motivi: il primo è che avevamo iniziato il Mondiale con tre sconfitte (compresa quella contro la stessa Spagna nei gironi, ndr) ed eravamo reduci da un Sei Nazioni senza vittorie. Sembrava non fossimo all’altezza, ad un giudizio distratto e superficiale, ma a quel Mondiale eravamo arrivate malissimo, in condizioni molto difficili. Di fatto, non eravamo pronte per l’inizio del torneo. Non ci siamo mai nascoste dietro a scuse per le nostre prestazioni, anche se di alibi ne avremmo avuti. Ci siamo prese le nostre responsabilità prima, e le nostre rivincite poi, chiudendo in bellezza. Il secondo motivo, forse invece è legato al fatto che sapevamo come quella sfida avrebbe rappresentato l’ultima volta in maglia azzurra di tante ragazze straordinarie, che in un certo qual senso ci hanno aperto la strada, spianandoci quel percorso che stiamo attualmente percorrendo a buona velocità. Dicevano basta, tra le altre, due come Gina (Paola Zangirolami, ndr) e Maria Grazia (Cioffi, ndr), che negli anni, più che compagne di squadra, sono state vere e proprie amiche, nella connotazione più forte e pura del termine. Vincere quella partita, dunque, andava oltre il risultato in sé. Vincere quella partita avrebbe voluto dire salutarle e ringraziarle degnamente. Non so se ci siamo riuscite, ma spero con tutto il cuore di sì”.

La tappa speciale di un viaggio iniziato quasi per caso, anni prima

L’ultimo atto iridato, in quel di Belfast, è una delle tappe più entusiasmanti di un percorso molto lungo e già denso di successi ed avvenimenti da ricordare (come l’emozionante esordio in Nazionale nel 2014 a Port Talbot, in Galles), cominciato quasi per caso tanti anni prima.

Assieme a mamma Anna e papà Patrizio – oggi i primi tifosi della famiglia delle Valsugirls e di tutte le selezioni in cui gioca (“non ho ancora capito cosa li spinga, così come altri genitori, su tutti il papà “ultras” di Elisa Giordano, a seguirci dovunque, anche quando non gioco, ma lo apprezzo molto”) -, Beatrice (quartogenita della famiglia, ha anche una sorella di nome Maria) guarda dal vivo ogni sfida dei fratelli maggiori Giovanni (“a cui devo il fatto di aver imparato a calciare”) e Francesco (“mi ha insegnato come pormi con la stampa”), che ha scritto un libro dal titolo “Family trip”, in cui trovano abbondante spazio le gesta delle azzurre al Mondiale 2017.

Le loro gesta, di fatto, le aprono inconsapevolmente la strada verso la disciplina della sua vita, anche se pure il basket a stelle e strisce ne attrae l’attenzione con forza (“come fai a non impazzire per i gesti tecnici di atleti come quelli della NBA, e pure per tutto quello che gira attorno alla lega?”).

“Seguivo le partite dei miei fratelli al campo. Appena potevo, a fine gara, li raggiungevo sul terreno di gioco. E in mezzo a quegli omoni, nonostante fossi così piccolina, mi sentivo bene. Ero felice. Poi, ho scoperto, a 5 anni, che potevo pure giocarci a rugby ed è stato uno dei momenti più belli della mia vita. Vado fiera di quei sette anni nelle giovanili del Petrarca, che a Padova rappresenta la massima aspirazione per chiunque pratichi il nostro sport, trascorsi ovviamente assieme ai maschietti. Ci siamo divertiti tantissimo. Quelle classi di giovanili hanno ottenuto grandi risultati nel corso degli anni, e si percepiva, ripensandoci, una qualità di gioco già molto alta. Tra gli altri, per esempio, ho giocato a lungo anche con Matti (Mattia Bellini, ndr), ma non era l’unico a possedere quel quid in più rugbistico”, si illumina Beatrice, ritornando a quei tempi segnati da felicità pura, prima di accennare ad una delle sue delusioni più grandi.

“Non avevo capito, però, nella mia ingenuità dell’epoca, che a partire da una certa età (12 anni, ndr) il percorso ovale tra uomini e donne si sarebbe dovuto dividere. Per me, il rugby era rugby, non avevo la più pallida idea che esistesse un rugby per sole femmine. Fu abbastanza dura da metabolizzare, così come lo fu dover abbandonare forzatamente il Petrarca ed unirmi al Valsugana, che di fatto era vista come una rivale all’interno dei confini cittadini. Ci misi del tempo ad accettare questa nuova situazione, totalmente diversa e non così facile da gestire, perché destabilizzava improvvisamente il mio equilibrio come bambina, ancor prima che come giovane atleta”, prosegue.

“Poi, settimana dopo settimana, mese dopo mese, sono entrata pienamente in sintonia con la famiglia del Valsu. Una realtà diversa, più piccola rispetto all’ambiente del Petrarca, in cui tutti hanno il piacere di dare una mano. Di mettere il proprio mattoncino nella costruzione della grande casa ideale della nostra comunità. In club house, ed in generale al campo, è come se esistessero dei piccoli gruppetti, o delle task force (sorride, ndr) – per usare un termine tanto in voga in questo momento -, deputati a svolgere un lavoro specifico, per tenere in piedi la nostra ‘organizzazione’. Io ad esempio, assieme al coach Nicola Bezzati, anche se non è un compito ufficiale, mi prendo sempre in carico la pulizia del nostro spogliatoio. Difficile spiegare a parole quanto ci tenga a questa cosa. Dal punto di vista del rugby giocato, poi, come detto parlando del programma di lavoro di queste settimane down, non potrei chiedere nulla di meglio. Sono, anzi siamo fortunate a trovarci in un contesto simile”, chiarisce Bea, prima di fornire il suo punto di vista sulla possibilità di giocare come pro, e sulla visibilità del rugby in rosa in Italia, con lo sguardo proiettato verso il futuro.

“Consapevole di come si fosse (nel 2014, ad inizio percorso accademico, ndr) – e per certi versi lo si sia ancora oggi – lontani dalla possibilità di vivere facendo le rugbiste, avendo mia madre una negozio di farmaceutica, ho intrapreso la carriera universitaria proprio in farmacia, per poter essere sicura di avere un datore di lavoro in grado di garantirmi – senza grossi patemi – tutte le ferie che servono per stare al passo con la Nazionale. Premettendo che sono convinta di aver fatto la scelta giusta, non posso negare che giocare come professioniste ci interesserebbe. Anzi, ci interessa molto.

Anche perché a quale atleta di alto livello non piacerebbe potersi concentrare al 100% sull’attività sportiva? D’altro canto, non nego che, per come siamo abituate, ci stranisce ancora parecchio l’attenzione dei media, così come il fatto che ci siano tante bambine che ci chiedono un autografo o una foto, o la crescita notevole dei follower su IG. Purtroppo, però, è un seguito sempre estemporaneo, legato, almeno per ora, quasi esclusivamente ai due mesi del Sei Nazioni. Poi, finito quel coacervo di emozioni che è il Six Nations, è come se non esistessimo più, come se scomparissimo improvvisamente, eppure siamo sempre sui campi a fare quello che ci riesce meglio per almeno altri 8 mesi all’anno”, chiude, nella speranza che non solo una campionessa di questo calibro si continui a “sentire” dentro lo spogliatoio di Nazionale e Valsugirls, ma che possa essere osservata ed apprezzata di più, molto di più, durante tutto l’anno. Al pari di tutte le colleghe che animano un movimento, quello femminile, sempre più in fermento.

Matteo Viscardi

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