Sei Nazioni 2019: cosa aspettarsi dall’Italia?

Gli azzurri inseguono il progresso, senza diversi giocatori importanti e con le solite incognite di una squadra molto inferiore alle altre

italia 2018

ph. Sebastiano Pessina

La ventesima partecipazione al Sei Nazioni dell’Italia è ufficiosamente la più «difficile di sempre», per usare le parole di Conor O’Shea e Sergio Parisse. Non è “maniavantismo”, considerando il carattere e la competitività di CT e capitano, ma una semplice constatazione dei fatti basata sugli ultimi risultati della maggior parte delle squadre europee. Compresa l’Italia. Se è il più «difficile di sempre», del resto, non è solo merito di Irlanda, Inghilterra, Galles o Scozia ma anche demerito dell’Italia, che nell’ultimo periodo ha visto aumentare il gap dalle consorelle (entrare a fondo nell’argomento richiederebbe fiumi di parole, e non è questa la sede per farlo).

Al momento, quella degli azzurri è una rincorsa fiacca e inconsistente, che si scontra con limiti strutturali di un movimento rimasto fermo per troppo tempo e limiti tecnici di staff e giocatori sul campo, a cui anche il lavoro nel corso degli anni non sembra dare per forza delle risposte. Sono problemi viscerali, che confluiscono gli uni negli altri e non riescono mai a rendere lineare qualsivoglia analisi sullo stato di forma della nazionale maggiore.

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Quasi ogni critica va sempre riportata a monte, soprattutto quando gli azzurri subiscono le pesanti sconfitte tipiche degli ultimi Sei Nazioni, perché d’altronde non è solo colpa di chi prepara e gioca le partite se i punteggi sono quelli che sono. Se non ci dovessero essere sorprese, lo stesso ritornello si dovrebbe presentare anche nelle prossime settimane. Separare il recente passato dal presente, nel caso dell’Italia, è quindi semplicemente impossibile, ma è comunque necessario per potersi concentrare sul qui e ora.

I temi fondamentali

Per cosa gioca l’Italia? La risposta utopica è per vincere, quella pragmatica è per provare a migliorarsi sempre di più, ogni giorno che passa. Se non si rincorre un’utopia, tuttavia, diventa difficile progredire: nessuno pensa di poter vedere gli azzurri togliersi grandi soddisfazioni nel corso del torneo, ma senza una visione un po’ irrealistica dei propri obiettivi è di fatto inutile mettersi in gioco, specie per una squadra nettamente inferiore a tutte come l’Italia.

Se gli azzurri alla fine del torneo si saranno avvicinati almeno un po’ a quell’utopia, allora vorrà dire che sarà stato un torneo positivo. Concretizzando, ciò non significa necessariamente vincere una partita, missione davvero complicata sotto tutti i punti di vista, ma anche solo conquistare qualche manciata di punti di bonus in più, offensivi o difensivi che siano.

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Lo scorso anno gli azzurri ne raccolsero appena uno, all’ultima giornata contro la Scozia in un contesto comunque particolare; prima di allora ci erano andati vicino – un po’ incredibilmente, a dire il vero – solo in Irlanda, quando gli uomini di O’Shea si fermarono a tre mete realizzate. Per il resto, erano rimasti sempre piuttosto lontani. È una base di partenza molto bassa, quasi infima, ma è anche l’unico parametro ‘materiale’ a disposizione, che sarà a sua volta la somma di tutte le intangibles non strettamente misurabili e che si possono osservare durante una partita: la capacità di vincere la battaglia fisica, la resistenza con il passare dei minuti, la reazione ai colpi inferti dagli avversari e la consistenza del gioco offensivo e difensivo. Bisognerà (ri)partire da lì.

Il mese di novembre aveva lasciato sensazioni contrastanti nelle uniche due partite che possono essere realmente considerate, ovvero Georgia e Australia. Buone la capacità di reagire e la presenza fisica nei punti d’incontro, ad esempio, ma poco entusiasmante la gestione della fase offensiva e la capacità di comprendere il flusso di gioco in talune occasioni, in difesa ma soprattutto in attacco, che è risultato soprattutto nella sterilità offensiva contro i Wallabies. Riguardo a quest’ultimo punto, le sopraggiunte assenze di Bellini e Polledri e quelle già note di Violi e Minozzi rischiano di essere un grosso macigno per le capacità realizzative dell’Italia, a cui Mike Catt e tutto lo staff dovranno necessariamente trovare una soluzione.

Potrebbe non essere una semplice emulazione del Benetton, in uno strepitoso momento di forma, a garantire poi maggiore equilibrio e maggiore efficacia all’Italia anche su un palcoscenico come il Sei Nazioni. Il salto dal Pro14 è piuttosto alto e nel breve periodo non è affatto scontato che strutture, schemi e prestazioni possano essere interiorizzati anche a livello internazionale nell’immediato, soprattutto contro squadre già abituate da tempo a esprimersi su certi standard. In ogni caso, il metodo-Benetton ha un suo perché e sarebbe paradossale non seguirlo, visti i risultati dei Leoni.

Punti di forza

È maledettamente complicato capire quali siano effettivamente le armi migliori dell’Italia, se confrontate agli avversari contro cui dovranno essere usate. In una cosa gli azzurri hanno sicuramente compiuto progressi negli ultimi tempi, ovvero nella capacità di produrre gioco con più continuità rispetto al passato senza incappare in errori banali. Che, tradotto, vuol dire far cadere meno palloni a terra in maniera angosciante.

Uno dei tratti positivi, a novembre, è stata la caparbietà e l’efficacia nel “fare la guerra” sui punti d’incontro e nel corpo a corpo, tra l’altro forse l’unica nota lontanamente lieta del match contro gli All Blacks. Potremmo aspettarci quindi un’Italia aggressiva al punto giusto dunque, in grado di tenere testa più di altre volte nella battaglia fisica contro avversari più dotati.

E poi ci sono i singoli: Sebastian Negri e capitan Parisse in terza linea sono il valore aggiunto, Jayden Hayward è garanzia di buone prestazioni all’estremo e Michele Campagnaro dovrà essere messo nelle migliori condizioni possibili per scaricare sul campo tutti i suoi cavalli. Ai Wasps sta crescendo e sta prendendo confidenza: l’arma in più è lui.

Punti deboli

Negli ultimi anni la difesa e le fasi statiche hanno fatto un po’ acqua da tutte le parti, e i motivi non possono essere solo legati ai singoli giocatori. Per quanto riguarda l’organizzazione difensiva e la mischia si è visto qualche segno di risveglio a novembre, ma affermare che molti dei problemi sono già stati risolti sembra troppo presto. Più che “punti deboli” sono “punti interrogativi”, ma il confine potrebbe diventare labile. La difesa, in particolare, dovrà dimostrare di essere migliorata in riorganizzazione e copertura degli spazi al largo.

Le carenze sono effettive invece in rimessa laterale, con il secondo tempo horror di Italia-Australia che probabilmente ancora infesta i sogni di De Carli, Ghiraldini, Bigi e il resto del pack. Con Parisse, gli azzurri ritrovano un altro leader in touche, che si aggiunge a Budd e Zanni, ma è tutto il sistema – chiamate, alzate e lettura della situazione – a non aver impressionato, per usare un eufemismo.

Detto di una fase di costruzione più positiva rispetto al passato, l’Italia potrebbe ritrovarsi invece a convivere con i già citati problemi nel finalizzare quanto creato. Ancora una volta, il secondo tempo contro l’Australia è stato esemplificativo: nemmeno una fase d’impostazione più organizzata ha potuto sopperire completamente ad altre mancanze. Quali? Le scarse capacità individuali (di molti, non tutti) di interpretare il flusso di gioco, velocizzare nel momento opportuno, comprendere quando andare dritto per dritto o fare un passaggio. Mancano giocatori capaci di fare la differenza nello stretto, di battere l’avversario in un fazzoletto e di creare un vantaggio anche da situazioni complicate.

Tra i trequarti, inoltre, una coppia di centri formata da Castello e Campagnaro (titolari a novembre), ha pregi ben evidenti, ma altrettanti difetti chiari: poche doti di playmaking, poca alternanza nel gioco e assenza di gioco al piede L’ingresso di Morisi – al posto dello zebrato – darebbe forse qualche soluzione in più in questo senso, ma bisognerebbe anche migliorare tutta la struttura per permettere a quest’ultimo di integrarsi al meglio.

Scenario migliore possibile

L’Italia approccia il torneo come meglio non potrebbe, mettendo in seria difficoltà una Scozia molto indisciplinata, riuscendo a vincere grazie al 100% dalla piazzola di Tommaso Allan e a un drop nel finale di un Carlo Canna finalmente a suo agio in maglia azzurra. Espugnato Murrayfield, gli azzurri strappano un bonus difensivo contro il Galles e poi cedono nettamente contro l’Irlanda nelle prime due partite casalinghe, ma senza crollare del tutto contro i Verdi, a cui vengono concessi una quarantina di punti al massimo. L’attacco, intanto, si riscopre prolifico e Campagnaro è il metaman del torneo.

In Inghilterra arriva una sconfitta, ma con una prestazione di spessore internazionale e un passivo di 15 punti. All’ultima giornata, contro la Francia ci si gioca il quinto posto: gli azzurri possono schierare nuovamente Violi, Polledri e Bellini che danno un’ulteriore marcia in più all’Italia e la portano ad un’insperata seconda vittoria nel Sei Nazioni. Gli azzurri chiudono così con 9 punti in classifica; Parisse saluterà commosso l’Olimpico con un giro di campo memorabile e Conor O’Shea firmerà il rinnovo di contratto nella conferenza stampa post partita fino al 2030.

Scenario peggiore possibile

40, 50, 60, 50, 40. Sono i punti che l’Italia subirà in ogni singola partita del torneo, in rigoroso ordine di calendario. Gli uomini di O’Shea tirano fuori delle prestazioni peggiori dello scorso anno, ma questa volta non si riscattano nemmeno davanti al proprio pubblico all’ultima giornata. Gli appena 40mila spettatori sugli spalti dell’Olimpico fischiano sonoramente la squadra, che intanto ha perso per infortunio Negri e Campagnaro nelle settimane precedenti, e sotto la pioggia battente Sergio Parisse prova ad accomiatarsi con lo stadio per l’ultima partita in casa. E le sue lacrime si confondono ben presto con la pioggia che arriva dal cielo.

Giocatore da seguire

Per Abraham Steyn non ci sono mai state così tante responsabilità in azzurro come quest’anno. A 26 anni, il sudafricano dovrà finalmente dimostrare di essere all’altezza di un ruolo da sicuro (a meno di sorprese) titolare in terza linea, al fianco di Negri e Parisse. A novembre è stato uno dei migliori per ball carrying, difesa e presenza in giro per il campo, così come lo è da inizio anno anche per il Benetton. Ha la grande occasione per riabilitarsi definitivamente agli occhi del grande pubblico italiano, dopo un paio di stagioni davvero negative in maglia azzurra.

Daniele Pansardi

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