Una carriera brillante, tra libri ed ovale: intervista a Michela Sillari

Abbiamo sentito l’utility back azzurra, che ci ha parlato di Sei Nazioni femminile e delle sue esperienze nel mondo di Ovalia

ph. Sebastiano Pessina

Michela Sillari è, senza ombra di dubbio, una delle esponenti più importanti del nostro movimento rugbistico dell’ultimo lustro. La ragazza nativa di Parma, stella del Colorno ed uno degli elementi di spicco della nazionale di Di Giandomenico, ha scritto, lo scorso anno, una pagina di storia del nostro ovale in salsa rosa, vincendo il campionato inglese (assieme alla compagna azzurra Manuela Furlan) con la prestigiosa maglia delle Aylesford Bulls Ladies. Poi il ritorno in Italia, per riabbracciare il Colorno e portare a termine il brillante percorso di studi in ingegneria civile, che le ha già permesso di conseguire la laurea triennale. Una ragazza di successo, con la quale abbiamo ardentemente voluto affrontare diversi temi.

Michela, a distanza di dieci giorni dalla fine del Sei Nazioni e a mente fredda, come valuti il vostro torneo? Prevale la soddisfazione per il doppio successo, oppure, soprattutto col senno di poi, c’è anche un poco di rammarico per la gara contro l’Irlanda?

Sicuramente lo valuto in modo positivo, perché aver vinto le ultime due gare, dopo che l’anno scorso non ne avevamo vinta nessuna, ci ha fatto bene, sia a livello di morale che di stimoli in ottica futura. Le gare che abbiamo portato a casa erano i nostri due grandi obiettivi. Poi, mentre Inghilterra e Francia restano un paio i gradini sopra, sappiamo che la partita contro l’Irlanda diventa, anno dopo anno, sempre più alla nostra portata. Per vari aspetti, però, ce la siamo lasciata sfuggire, quindi un poco di rammarico c’è, ma al termine della competizione eravamo soddisfatte.

Anche perché avete cambiato molto, recentemente…

Assolutamente. Abbiamo avuto un grande ricambio generazionale dopo il mondiale estivo. In più, nel corso del torneo, abbiamo perso per strada qualche referente importante. Penso ad Elisa Giordano contro l’Inghilterra, che è il nostro numero 8, poi si è fatta male anche Veronica Madia e pure Valentina Ruzza, dopo pochi minuti in Irlanda, ha dovuto lasciare il campo. Parliamo di giocatrici importanti, e soprattutto esperte. In un gruppo così fresco e rinnovato, non è facile rinunciare forzatamente a tre elementi del genere. Guardando la cosa, però, da un’altra angolatura, tutto ciò ha permesso alle più giovani di mettersi in mostra e di testarsi al massimo livello. L’impatto di Giada Franco, ad esempio, è stato notevole, ma non solo il suo.

A livello personale, invece, come è andato il tuo torneo?

Io sono arrivata alle prime partite dopo quasi un mese di stop, per l’infiammazione alla bandelletta ileotibiale. Niente di grave, non fosse che non ti permette di allenarti. Nelle due partite iniziali sono stata un poco sottotono, facendo fatica a livello di fiato. Poi, sinceramente, ci ho messo un attimo anche ad entrare nei meccanismi della squadra da numero 13, perché sia al mondiale che nella passata stagione in Inghilterra ho giocato come ala, quindi ho commesso anche qualche errore difensivo di troppo.

Direi che sono partita malino, e poi mi sono ripresa come ha fatto tutta la squadra. Del resto, quando il collettivo gira al meglio, è più facile anche per un singolo giocare bene. Nel complesso sono abbastanza soddisfatta, anche se ripenso agli errori commessi e vorrei non averli fatti. L’obiettivo, per la prossima annata, è proprio quello di limare il più possibile le imprecisioni sul campo. Gli stimoli per fare meglio non mancano.

A proposito di adattamento tattico, quanto cambia per te l’approccio alla gara in base al ruolo in cui giochi?

Come ho accennato in precedenza, c’è abbastanza differenza tra giocare ala o centro soprattutto relativamente alla difesa. Da ala devi gestire la profondità, arrivare in linea con il tempo giusto, e se hai di fronte un’avversaria estremamente veloce sai che dovrai giocare d’anticipo per riuscire a prenderla. Da centro, invece, è un discorso più tattico. Hai la necessità di capire dove andrà a giocare la squadra avversaria, di leggere prontamente cosa ti sta presentando il loro attacco.

Della tua esperienza di successo in Inghilterra dell’anno passato (vittoria del titolo con le Aylesford Bulls, sublimata da una doppietta in finale), cosa ti ha colpito extra-campo? Come si vive il rugby femminile in una landa, quella inglese, che mastica ovale ogni giorno?

Una delle cose che salta subito all’occhio è la grande flessibilità dei datori di lavoro. Quando vengono a sapere che giochi a rugby ad alto livello, sono estremamente disponibili nel ritagliare turni su misura per te, affinché si possa coniugare l’attività sportiva e quella lavorativa nel modo migliore. Ovviamente lassù, se parli con qualcuno e dici di essere una rugbista, la reazione dell’interlocutore, mediamente, è quella di una persona entusiasta della cosa, che si informa subito anche del club in cui militi. Chiaramente, a quelle latitudini, la palla ovale ha un seguito notevole, e si percepisce.

Il professionismo integrale, però, resta un miraggio anche nel Regno Unito…

Per ora solo le ragazze della rappresentativa seven sono pro, pagate dalla federazione. L’anno passato anche le nazionali del XV, in vista del mondiale, avevano un contratto con la RFU. Io, dunque, non ero professionista, come la maggioranza assoluta delle ragazze della Premiership. Ora, però, si sta iniziando un percorso nuovo, per dare maggior lustro al torneo e aiutare maggiormente le atlete, coinvolgendo nuovi sponsor. Chissà che a breve non ci possano essere delle novità interessanti. Del resto, poter affrontare il rugby come un lavoro sarebbe la vera chiave di volta per far crescere tutto il movimento globale in modo sensibile.

Matteo Viscardi

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