Sei Nazioni 2018, la delusione del torneo: l’Inghilterra

La squadra di Eddie Jones si è resa autrice di un fiasco senza precedenti

Ph. Sebastiano Pessina

Se otto settimane fa ci avessero detto che l’Inghilterra campione in carica del Sei Nazioni sarebbe arrivata al quinto posto del torneo, avremmo preso per pazzo l’autore di una tanto ardita affermazione. E invece, è successo. La squadra guidata da Eddie Jones, data da molti (quasi tutti) come probabile vincitrice della competizione, si è sciolta dopo la seconda partita come neve al sole incappando in tre KO consecutivi che l’hanno relegata alle spalle di Irlanda, Galles, Scozia e Francia e davanti soltanto agli azzurri. Analizziamo i motivi di questa débâcle.

Le prime avvisaglie e un paradosso: avere poca abitudine a perdere
Eppure che non fosse la solita Nazionale della Rosa, lo si era già capito fra l’esordio a Roma e la battaglia interna – vinta per poco (12-6) e con la mancata assegnazione di una meta agli avversari – contro un Galles rimaneggiato e non poco.
A Edimburgo, poi, il primo cazzotto inaspettato dalla Scozia e una ripercussione mentale che ha gettato nel panico la formazione di Eddie Jones. La pressione di rialzarsi per chi, dall’avvento del CT nel post Rugby World Cup 2015, non era praticamente più abituato a perdere si è divorata la psiche di Hartley e compagni consegnandoli dapprima ad una Francia sulle ali dell’entusiasmo e poi ad un’Irlanda capace di trovare il Grande Slam sul prato di Twickenham, in un San Patrizio leggendario per i “Verdi”.

Dylan Hartley il capitano non apprezzato e il tentativo con Farrell
Nei momenti di difficoltà la leadership di un capitano ci si auspica che venga sempre fuori, magari essendo supportata dall’ambiente interno ed esterno alla squadra.
In Inghilterra invece non è stato così, perchè un sacco di critiche dai media e dall’opinione pubblica sono piovute sul tallonatore della nazionale; che peraltro era stato scartato dalla selezione dei Lions nella scorsa estate per il suo carattere fumantino. Una figura poco apprezzata e spesso oggetto di domande per Eddie Jones, il quale invece lo ha scelto da subito come guida.
I sudditi della Regina hanno quindi spinto per consegnare i gradi di capitano a Owen Farrell, nella gara con la Francia (a seguito di un “infortunio breve e misterioso” per Hartley), ma l’idea si è dimostrata non poco fruttuosa visto il risultato (22-16 a favore dei Bleus) in terra transalpina.

Sul campo: all’improvviso una “coperta corta”, i dubbi su molti ruoli e le misure prese dagli avversari
Una profondità di scelte infinite alla vigilia, poi l’infortunio di Ben Youngs e il puzzle che praticamente va in mille pezzi senza più ricomporsi. L’indisponibilità per tutto il torneo del mediano di mischia titolare ha scoperchiato un vaso di pandora in un gruppo che al suo interno soffriva già dell’assenza di un numero otto come Billy Vunipola.
Danny Care e Richard Wigglesworth – inutile negarlo – non sono stati all’altezza e non hanno il ritmo per essere pienamente titolari ai livelli richiesti. In questo momento sono dei finishers da 15-20 minuti di autonomia massima.

Ma il problema della regia ha riguardato anche il ruolo di apertura e a cascata tutti i trequarti. Da quando è arrivato Eddie Jones infatti ha sempre puntato sul doppio playmaker schierando Ford e Farrell rispettivamente da numero 10 e numero 12. Una scelta che sino a novembre scorso ha pagato in lungo e in largo (è proprio il caso di dirlo, riferendosi al rettangolo di gioco), ma che all’improvviso si è dimostrata più leggibile del solito per gli avversari che hanno targettato Ford come “l’anello debole” del reparto arretrato. La contromisura britannica allora è stata quella di schierare Farrell da apertura, nel suo ruolo naturale, posizionando due centri veri come Ben Te’o e Jonathan Joseph nel cuore del comparto veloce. Anche qui però i risultati ottenuti non hanno prodotto un esito positivo investendo peraltro nel polverone sollevatosi anche il triangolo allargato.
Se stanno tutti bene, Brown, Watson, May, Daly e Nowell sono un lusso ma se per cali di forma e contingenze di infortuni i cinque non sono al massimo delle loro possibilità anche sfogliare la margherita diventa un problema. E si sa che non garantire stabilità molto spesso può rappresentare un problema, come di fatto lo è stato per un’Inghilterra autrice soltanto di 102 punti in cinque partite (quarto miglior attacco davanti alla Scozia di un punto e all’Italia di 10 lunghezze, con una media di 20,4 punti per partita; nel 2017 furono 146 a una media di 29,2 pti per match)

Ultima questione tattica: la posizione di Maro Itoje? C’è chi lo vorrebbe come flanker e chi sostiene invece che stia bene in seconda linea. La scelta dovrà essere necessariamente di Eddie Jones, ma certo che in questo momento un’annosa questione in più da buttare nel calderone dei dubbi non fa certamente piacere.

Alzare l’asticella verso la “Marea Nera” e non pensare al presente
Due anni di vittorie nel Sei Nazioni, dei test di giugno e novembre vissuti da protagonisti e tutti i media del mondo a spingere verso la sfida contro gli All Blacks; che sarà realtà nella sessione autunnale di fine 2018.
Un pensiero fisso per Eddie Jones e i suoi, quello di misurarsi contro i più forti, che potrebbe aver parzialmente distolto l’attenzione dal focus immediato del Sei Nazioni.
Cercare di pianificare più che di vivere step by step in un percorso che inevitabilmente dovrà portare poi nel giro di diciotto mesi alla World Cup 2019: vero grande obiettivo della banda inglese che, oltre alla conquista del trofeo, deve cancellare l’onta di un’eliminazione al primo turno dei Mondiali casalinghi del 2015.

 

Michele Cassano

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