Nazionale, competitività e un torneo chiuso: questione anche di disparità economiche

Per The Rugby Paper l’ Italia, non messa alla pari con le altre, diventerà una potenza. Ma sono tante le voci da considerare…

ph. Sebastiano Pessina

ph. Sebastiano Pessina

“Ho visto l’Italia diventare una vera potenza dell’Emisfero Nord”. Si intitola così il contributo settimanale di Jeff Probyn, columnist di The Rugby Paper. L’attacco dell’articolo è dedicato alla gestione Brunel, che l’ex pilone inglese, 37 caps tra il 1988 e il 1993, considera positivo. “Non sono d’accordo con l’opinione che molti hanno di questi anni, anche a fronte dell’ultimo cucchiaio di legno. Il ct francese dovrebbe ricevere un applauso per dove ha portato la squadra”. La differenza sta soprattutto nel piano di gioco, per Probyn nettamente diverso rispetto al passato: “Durante la gestione di Mallett si poteva facilmente intuire che quello italiano era un gioco a dieci uomini e senza trequarti […] ma Brunel ha introdotto un modo di giocare completamente nuovo e iniziato un percorso che porterà gli Azzurri tra le potenze dell’Emisfero Nord”.
Ma le tanto lamentate lacune nei risultati, e qui sta la parte più interessante, sarebbero dovute non solo a problemi tecnici e prettamente sportivi, ma anche ad un corto circuito che si è venuto a generare al momento dell’ingresso nel Sei Nazioni: “Come le neopromosse in Premiership, nella distribuzione degli utili generati dal torneo l’Italia ha ricevuto meno risorse rispetto alle cinque avversarie, che già da oltre un secolo avevano raggiunto un alto standard di performance“. A questo aggiungiamo la presenza di due soli club professionistici che non possono minimamente competere con Top14 e Premiership, e il quadro è completo.

 

L’analisi contiene degli spunti certamente interessanti e in un momento in cui si sentono spesso le parole “Georgia” e “promozione/retrocessione”, è di estrema attualità (a proposito, per Probyn introdurre un sistema di playoff sarebbe rischioso, perché “se per esempio fosse la Scozia a retrocedere e perdesse anche solo per un anno i ricavi generati dalla partecipazione al Sei Nazioni, ciò avrebbe un impatto devastante sull’intero movimento”). Il senso del discorso è il seguente: non si può ammettere una squadra all’interno di una competizione chiusa e di antica tradizione e pretendere che gareggi alla pari, se prima non la si è messa nelle dovute condizioni economiche.
Tralasciando l’aspetto tecnico, sportivo e di formazione (dove di errori negli anni ce ne sono stati) e concentrandoci solo su quanto fin qui scritto, possiamo fare un confronto con quanto accade per esempio negli Stati Uniti, dove le competizioni chiuse sono la base del sistema sportivo. Nella National Football League, per esempio, quasi l’85% dei ricavi complessivi generati vengono suddivisi tra tutte le franchigie, mentre ad ogni partita una buona fetta (più del 30%) degli incassi della vendita di biglietti va alla società ospite (“Siamo un branco di Repubblicani che gestiscono il proprio business in modo socialista”, disse una volta Art Modell, proprietario dei Cleveland Browns). La volontà di istituire un sistema “egualitario” (vero o presunto, ognuno può farsi la propria idea), si riflette anche in sede di processo decisionale (per tutte le questioni più importante serve la maggioranza di almeno 75% dei proprietari, una testa un voto) e per esempio nel sistema del draft. E in termini di risultati e accesso ai playoff, la maggiore e più distribuita competitività si nota. Poi certo, non mancano le differenze tra le squadre, generate da tutte le cosiddette unshared revenue: sponsor name dello stadio, costo dei Luxury Box (150.000 dollari l’anno un box dei Patriots, 34.000 quello dei Colts), supporto dato dai media locali e capacità/abilità in termini di marketing e merchandising, solo per dirne alcune. E qui, per tornare al nostro continente e sport, si nota tutta la differenza tra noi e quelle nazioni che da oltre un secolo stanno nel gotha di Ovalia.

 

Per fare solo l’esempio dello sponsor name dello stadio, avere un proprio impianto permette di chiamarlo Aviva, BT Murrayfield e Principality (per WalesOnLine la federazione gallese riceverà 15 milioni di sterline in 10 anni), e anche la RFU sta valutando offerte per Twickenham, come recentemente dichiarato dal CEO Ian Ritchie al Telegraph. Insomma, il circolo virtuoso della competitività parte anche da qui. Allargare la base commerciale, come recentemente dichiarato dal Presidente Gavazzi, è uno step fondamentale e soprattutto inderogabile nel mondo dello sport professionistico. Certo, convincere un tifoso a comprare una maglietta originale dell’Italrugby era più facile nel Duemila durante la sbornia collettiva, farlo oggi dopo i 125 punti tra Dublino e Cardiff, più che difficile è un’impresa.

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