Rugby a 13 e rugby a 15, italiani sì o italiani no: storie e differenze nella palla ovale

In questi giorni si è molto discusso della rosa dell’Italia impegnata nel Mondiale della League. Marco Pastonesi dice la sua

ph. Henry Browne/Action Images

C’è un’Italia del rugby che batte l’Inghilterra e sbanca il Galles. E’ quella della Rugby League, e non della Rugby Union. E’ quella del rugby a XIII, e non del rugby a XV. E’ quella dell’altro rugby. Scissionista (quello che è stato definito come lo “scisma” risale addirittura al 1895), invisibile, innominabile. La differenza non sta soltanto nel numero dei giocatori (ballano le due terze ali). Cito da Wikipedia: “Quando una formazione guadagna il possesso di palla, ha a disposizione sei azioni/tentativi per varcare la linea di meta avversaria; nel momento in cui un giocatore viene placcato o fermato in piedi senza che abbia più alcuna possibilità di muoversi o di liberare il pallone, il gioco si ferma e la squadra in difesa è costretta ad arretrare di 10 metri; soltanto due giocatori (i marker) possono restare, uno dietro l’altro, vicino alla palla. Il giocatore placcato può quindi rialzarsi e far ripartire il gioco facendo rotolare il pallone all’indietro in favore di un compagno, in gergo tecnico definito dummy half, colpendolo con la suola della scarpa e dando il via, così, alla nuova azione. Se dopo sei placcaggi (six tackle rule), la squadra in attacco non è riuscita a varcare la linea di meta avversaria, avviene il cambio di possesso e la palla passa all’altra formazione”.
Differente anche il punteggio: la meta vale 4 punti, la trasformazione e il piazzato 2, il drop 1.

 

In Italia, la Rugby League c’era ma non si vedeva. Il mio amico Luca Tramontin, che nella vita ha giocato e allenato tutto tranne curling e badminton (ma non ci giurerei), da tempi non sospetti sostiene anche il rugby a XIII. In questi giorni me lo immagino felice e contento. E io contento con lui. Come letto sui giornali, anche sulla “Gazzetta dello Sport”, la Nazionale italiana è formata da cognomi italiani, per il resto trattasi di giocatori soprattutto australiani. Non mi scandalizzo, perché anche la Nazionale di rugby a XV, per anni, ha pescato Pini e Pertile, Zisti e Gower (gli ultimi due, non a caso, giocatori di rugby a XIII), cioè figli di, nipoti di, cugini alla lontana di. Amen.
A Londra, in un negozietto dell’usato, mi sono fatto tentare dal prezzo (un paio di sterline) e ho acquistato un libro di Bob Howitt e John Deaker, intitolato “The Converts”, i convertiti, quelli che hanno traslocato da una federazione all’altra. Però, nel caso in cui fossero passati dal XV al XIII, si scrive che sono andati alla League; invece, nel caso in cui fossero passati dal XIII al XV, si scrive che sono andati al Rugby. Come dire che la League non è Rugby. Per amore della verità, solo per dire una minima parte di questi transfughi: dalla League al Rugby, i neozelandesi Frano Botica, John Gallagher, Craig Innes, Inga Tuigamala, John Timu e Marc Ellis; dal Rugby alla League, l’inglese Jason Robinson, il neozelandese Brad Thorn, gli australiani Mat Rogers, Wendell Sailor e Lote Tuqiri.

 

Il libro “The Converts” mi sembra di parte. Ma anch’io sono di parte. Altrimenti scriverei su Onleague e non su Onrugby. Ammesso che Onleague esista, altrimenti bisognerebbe inventarla. Sono di parte perché sono nato a XV, perché certe volte avrei voluto portare il rugby da XV a XVI o a XVII quando ero relegato in panchina, o addirittura a XVIII quando soggiornavo in tribuna come riserva viaggiante. Però certe volte ho giocato anche a XIII, soprattutto quando un paio di compagni non si svegliavano neanche a cannonate e mancavano l’appuntamento al bar o al campo.
Comunque, sia chiaro che sento tutta la riconoscenza verso i cugini o i fratelli del XIII per aver sconfitto Inghilterra e Galles, tanto più a casa loro. La mia onestà intellettuale mi costringe a specificare che proverei la stessa riconoscenza anche se le vittorie contro Inghilterra e Galles fossero state conquistate a freccette o a flipper, a braccio di ferro o a pinte di birra. Viva l’Italia.

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