Andrea Masi, l’aquilano che conquistò la Londra ovale in un pugno di mesi

Mallett e Brunel, Londra e il ritorno nella sua città, il futuro del nostro movimento: parla il trequarti azzurro (prima parte)

ph. Stefania Mattana

Questa estate doveva finire alle Zebre, poi ha scelto Londra. E nella capitale inglese Andrea Masi ha conquistato tutti, tanto che ormai con la maglia dei London Wasps è un titolare praticamente inamovibile. A meno di un mese dall’inizio del Sei Nazioni il trequarti azzurro ha concesso alla nostra Stefania Mattana una lunga intervista. Si sono incontrati ad Hyde Park e quello che state per leggere è la prima parte della loro chiacchierata.

 

Il cielo di Londra ci ha regalato una bella giornata di pioggia, eppure ad Hyde Park la gente va in bicicletta, scatta foto e porta a spasso il cane proprio come se splendesse il sole. Andrea Masi è arrivato puntualissimo all’appuntamento, parcheggiando la sua Vespa a un isolato di distanza. “Altrimenti mi mettono la multa. Qui sono attentissimi a dove parcheggi, e dopo le prime multe ho imparato la lezione.”, ha detto. Assieme a me, con Masi, c’eravate anche voi, amici di Onrugby, perché ho portato ad Andrea le vostre domande a cui lui ha risposto con grande disponibilità e simpatia. “La gente che mi segue e che mi vuole bene è uno stimolo in più per andare avanti, giocare e fare sempre meglio. Senza i tifosi, il rugby non sarebbe rugby”.

 

Come ti trovi ad aver cambiato ruolo negli ultimi anni in ogni squadra dove hai giocato, compresa la nazionale? Hai giocato in tutti i ruoli, tra i trequarti, ma quale preferisci di più?
A dire il vero, ho sempre giocato centro, in tutte le squadre dove ho militato. Solo in nazionale mi viene chiesto il sacrificio di giocare in altre posizioni da apertura ad ala, e ora estremo. Non è facile, perché misurarmi in un ruolo che non mi è naturale richiede un grosso sforzo, soprattutto a livello internazionale. Ultimamente il ruolo dell’estremo si è evoluto e richiede sempre più molta velocità e un ottimo calcio. A me chiedono di non calciare, e non lo faccio, non calcio. Io mi sento sempre più un centro, ed è il ruolo che preferisco. Sono nato centro e credo di avere le qualità e le caratteristiche fisiche di un centro. A livello internazionale la pressione psicologica è enorme, a maggior ragione se giochi fuori ruolo, ma sono un professionista e se il coach mi richiede come estremo, lo faccio.

 

Pensi che ci sia un problema nella formazione del ruolo di estremo in Italia, secondo te? Intravedi giovani estremi di buon livello? Hai visto un “nuovo Masi” tra i giovani che sono in odore di nazionale?
Credo che il problema in Italia sia la formazione tecnica in generale. Noi italiani siamo molto preparati a livello fisico, ed è una cosa che viene spinta molto. Ciò che manca al movimento rugbistico italiano è la competenza e la gestione delle basi, soprattutto quelle tecniche. Bisogna essere umili e imparare dalle grandi nazioni che hanno fatto e che fanno la storia di questo sport, chiamare magari qualche tecnico valido da fuori e portarlo in Italia a insegnare come si insegna il rugby. Non sarebbe un segno di debolezza del nostro movimento, anzi: sarebbe un grandissimo gesto di maturità da parte nostra. Per quanto riguarda il nuovo Masi… [ride] Che dire: abbiamo molti giovani con grandi qualità fisiche, bravi, veloci, con della buona tecnica… devono solo fare esperienza e crescere. Io sono stato fortunato perché ho sempre trovato dei tecnici che mi hanno saputo guidare e far maturare, e ancora so che posso migliorare in molte cose.

 

E facci qualche nome, no?
Su tutti ti dico Tommy Benvenuti, Esposito a Treviso, Campagnaro pure… ma ce ne sono tanti.

 

Cosa cambieresti nel movimento ovale italiano? O meglio, cosa miglioreresti per migliorare la crescita per il futuro?
L’Italia è cresciuta negli ultimi anni, credo che siamo sulla strada giusta. Per arrivare al top, secondo me, bisognerebbe essere meno arroganti e non sfornare solo giovani fisicamente eccezionali. Bisognerebbe guardare ai migliori, vedere come fanno loro e cosa fanno loro, e seguire il loro esempio.

 

ph. Stefania Mattana

Che consigli puoi dare affinché i giovani che ti vedono in televisione possano diventare dei grandi come te?
Le solite cose: giocare, giocare, giocare. Lavorare duro con costanza e umiltà, e avere un po’ di fortuna nell’incontrare i tecnici che ti danno qualcosa in più, come è capitato a me. E soprattutto bisogna credere nei propri mezzi ed essere sempre positivi e fiduciosi.

 

Hai mai pensato di giocare in terza linea?
No [ride]. Proprio no.

 

Sono tantissimi i tifosi che chiedono se mai tornerai a L’Aquila a giocare. Abbiamo ricevuto moltissimi messaggi di aquilani che chiedono se pensi di chiudere la tua carriera a casa. Che cosa rispondi loro?
Tornare a casa sarebbe bellissimo, sento un calore e un affetto che non puoi capire, ogni volta che torno in città. Ci penso eccome, a tornare a L’Aquila a fine carriera. Però perché torni è necessario che ci siano le condizioni societarie adatte, un progetto gestito con la massima serietà e una squadra solida.

 

Molti tifosi chiedono di raccontare le tue emozioni la prima volta che hai fatto meta, ma immagino che sia impossibile ricordare la tua prima meta in assoluto. Certamente ti ricorderai, invece, di ciò che hai provato quando hai ricevuto la tua prima convocazione in nazionale, l’esordio e tutto il resto.
Devo dirlo, sono stato molto fortunato. Sono un ragazzo fortunato [ride], perché non avrei mai potuto chiedere una carriera più bella di quella che sto vivendo. Ho esordito proprio a casa, a L’Aquila, contro la Spagna. E ho pure fatto una meta! Sono emozioni incredibili, che non puoi dimenticare, sono cose indescrivibili. Sentivo tutto il pubblico con me, che mi incitava… fantastico, fantastico.

 

Ma quindi è vero, i tifosi li sentite in campo, eh?
Ma scherzi? Li sentiamo eccome, sentiamo tutto, dal campo.

 

Anche quando i tifosi cantano l’inno mentre giocate?
Tutto, sentiamo tutto. E quanta carica ci danno. Sentire i tifosi che ti spingono dagli spalti ti dà davvero una marcia in più in campo.

 

Ti manca il Flaminio?
Eh, il Flaminio era come una casa, per noi, certo che mi manca. Però la botta d’impatto dell’Olimpico è straordinaria, è un’altra cosa.

 

Mallett e Brunel: quali differenze? A parte quelle che abbiamo visto noi durante le partite. Intendo, per esempio, quello che vi dice, quello che ha creato nello spogliatoio.
Posso dire che ci troviamo molto bene con Brunel. É un ottimo tecnico. Quello che mi piace molto, del rapporto che Jacques ha instaurato con noi, è la fiducia. Brunel nutre verso di noi una grandissima fiducia, ed è una cosa che si riflette anche nel gioco, non solo nello spogliatoio. Nick Mallett è uno dei tecnici migliori al mondo, è un dato di fatto, ma la sensazione è che a volte ci considerasse come dei giocatori meno forti e meno dotati fisicamente e tecnicamente rispetto ai nostri avversari. E questo poteva riflettersi negativamente in noi. Se parti con il piede sbagliato, pensando che l’avversario è sempre e comunque più forte di te, alla fine lo soffri, e ne soffri anche in prima persona, psicologicamente. Con Nick si giocava un rugby solo “di cuore”, con Jacques non si punta solo alla difesa, ma si prova ad attaccare, sempre. É un rugby (più) positivo, diciamo.

 

VAI ALLA SECONDA PARTE DELL’INTERVISTA

 

di Stefania Mattana

 

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