Come escono dai test estivi All Blacks e Irlanda

Neozelandesi mai così male, ma Foster manterrà il posto. Per Farrell l’urgenza di non ripetere gli errori dei predecessori

Un’immagine del primo test fra All Blacks e Irlanda – ph. MICHAEL BRADLEY / AFP

C’è un solo aggettivo che riassume il microcosmo dei 240 minuti giocati fra All Blacks e Irlanda nella serie protagonista dei test match estivi 2022: storico.

Per quanto le sconfitte patite dai neozelandesi in Europa a novembre, peraltro ad opera della medesima Irlanda, avessero reso non probabile, ma quantomeno possibile, una vittoria della squadra di Andy Farrell down under, riuscire a conquistare anche una sola delle tre gare appariva un’impresa. Figuriamoci addirittura vincere la serie.

Per come era incominciata, poi, le cose si sono rapidamente ribaltate nel giro di poche settimane. Il 29 giugno i Maori All Blacks si erano imposti 32-17 sulla seconda squadra irlandese, apparsa confusa e insufficiente, e che aveva subito già qualche acciacco fisico preoccupante. Il 2 luglio l’Irlanda aveva offerto forse la peggior prestazione degli ultimi due anni, cedendo per 42-19 nel primo test della serie.

Su Andy Farrell e sui suoi già si addensavano le nubi delle critiche, colpevole di aver portato dall’altra parte del mondo una squadra troppo corta e di non aver saputo sviluppare la necessaria profondità in alcuni ruoli chiave, in particolare la prima linea e il mediano di apertura.

Quindici giorni più tardi, quelle critiche sono dimenticate: l’Irlanda ha prima pareggiato la serie con il 12-23 a Dunedin, prima vittoria di sempre su suolo neozelandese; poi ha battuto i Maori All Blacks nell’infrasettimanale per 24-30, prima vittoria di sempre sulla selezione e prima sconfitta in 5 anni per quest’ultima; infine, ha scritto il proprio nome a caratteri cubitali nel manuale di Storia del football giocato alla maniera del college di Rugby con il 22-32 di Wellington con cui è diventata la terza squadra di sempre a vincere una serie di 3 partite contro gli All Blacks, l’unica dell’era professionistica.

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All Blacks, poco tempo per riflettere

Se sia un bene o meno non è dato saperlo, ma la Nuova Zelanda non avrà troppo tempo per leccarsi le ferite. La squadra di Ian Foster esce frastornata dai test estivi per gettarsi immediatamente nella preparazione del Rugby Championship, che inizierà il 6 agosto prossimo con la trasferta in Sudafrica.

La federazione neozelandese ha diffuso una nota, a firma del CEO Mark Robinson, in cui si sottolinea come la performance della squadra nazionale non sia ritenuta accettabile: “Lavoreremo con Ian [Foster] e il suo staff per capire di cosa ci sia bisogno per migliorare le prestazioni prima dell’inizio del Rugby Championship. Un lavoro che inizia immediatamente.”

La panchina dell’head coach traballa, ma non sembra davvero in procinto di cadere. Nonostante il peggior record di vittorie di qualsiasi tecnico All Blacks dell’era professionistica (66,7%), il Rugby Championship alle porte necessità di stabilità e al tempo stesso potrebbe consistere in una sorta d’esame d’appello per un allenatore che solo 6 mesi fa era stato oggetto di scrutinio da parte della propria federazione.

Nel corso dei 3 test estivi, la Nuova Zelanda è apparsa sé stessa solamente in una manciata di minuti a cavallo dell’intervallo del primo test e nei primi 20 della ripresa nel terzo. Una sorta di reazione di orgoglio di una squadra che ha evidentemente un bagaglio di talento stellare, anche se forse è collettivamente inferiore rispetto agli All Blacks dei primi vent’anni del Duemila a cui eravamo abituati.

Rimane evidente, però, come a questa squadra manchi qualcosa sia a livello strategico che di spogliatoio. I giocatori che scendono in campo non sembrano pienamente convinti del sistema di gioco, rendendo la sua interpretazione sterile e inefficace. Al tempo stesso, lo staff tecnico neozelandese è stato completamente out-coached da quello irlandese: basti pensare a come, per tutta la serie, l’attacco di Mike Catt abbia manipolato la difesa avversaria isolando le prime linee neozelandesi in mezzo al campo, andandole ad attaccare ogni volta che è stato possibile e palesandone i limiti; o a come Paul O’Connell abbia saputo, con la cooperazione di una grande partita di James Ryan, demolire la rimessa laterale degli All Blacks; o come la difesa irlandese si sia adattata dopo il primo test a difendere sul terzo uomo del pod neozelandese, costantemente innescato da Aaron Smith e Beauden Barrett in luogo del tradizionale secondo.

Non c’è mai stato, nella storia del rugby professionistico, un momento difficile come questo per gli All Blacks. Le ragioni sono sia immanenti all’attuale gruppo della nazionale che trascendenti dallo stesso, e insite invece in un movimento che ha perso la sua posizione di faro innovatore a livello mondiale negli ultimi anni. Come federazione, staff e giocatori risponderanno a queste circostanze senza precedenti darà forma al futuro dell’ex nazionale più forte del mondo.

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Irlanda, non ripetere gli errori del passato

Se c’è uno scherzo che fa storcere la bocca ai tifosi irlandesi, è quello che gli ricorda come la nazionale di rugby raggiunga sempre il picco delle proprie prestazione a un anno dalla Rugby World Cup, per poi fallire miseramente l’appuntamento con la rassegna mondiale.

L’Irlanda non è mai arrivata alle semifinali di una RWC e la preoccupazione principale di Andy Farrell e soci sarà assicurarsi che stavolta, invece, la prima posizione nel ranking mondiale a poco più di un anno da Francia 2023 sia un punto di partenza per raccogliere frutti concreti.

Rispetto al passato, però, la permanenza dell’Irlanda fra le squadre al top del rugby mondiale sembra destinata a durare, grazie a un impianto costruito con pazienza artigianale dall’head coach inglese e dal suo staff. In questo momento l’Irlanda gioca il rugby più strutturato del mondo, ma anche il più efficace a livello offensivo, con una quantità di possibili variazioni sul tema che nessuna squadra al mondo ha eguagliato. Le competenze sul punto d’incontro, una delle chiavi del gioco di oggi, sono forse fra le più sviluppate, sia in attacco che in difesa.

Il tutto in mano a giocatori che hanno dimostrato di avere pochi rivali: Andrew Porter e Tadhg Furlong è una coppia di piloni probabilmente superiore a tutte le altre; O’Mahony, Doris, Conan e van der Flier un quartetto di terze linee eccezionale; a 37 anni Johnny Sexton è ancora il miglior architetto offensivo al mondo.

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Ora la sfida è duplice: da una parte riuscire a rimanere all’avanguardia dal punto di vista del gioco, dall’altra costruire la profondità di una squadra che in alcuni ruoli ha poche alternative.

Stare al primo posto nel mondo, specie in termini di gioco offensivo, significa vedere le altre squadre da una parte emulare il gioco irlandese (già si vedono sempre più squadre che hanno imitato i pull-back passes all’ultimo secondo dei verdi) e dall’altra parte lavorare per costruire difese che sappiano tarpare le ali a questo tipo di attacco. L’Irlanda dovrà quindi continuare a evolversi per rimanere al top.

Avere giocatori del calibro di Porter, Furlong e Sexton significa anche faticare quando devono essere rimpiazzati. Tutti e tre sono rimasti in campo almeno 70′ nell’ultimo test a Wellington, eloquente cifra della loro importanza. Se allo stesso livello non si può pretendere di arrivare, sicuramente i tre backup devono salire di livello. A sinistra Cian Healy, 34 anni, sembra sul viale del tramonto. A destra Finlay Bealham è un buon finisher, ma dovesse trovarsi a giocare dal 1′ il suo apporto potrebbe scemare. A numero 10 Joey Carbery ha dimostrato lacune soprattutto difensive che non lo rendono, al momento, una alternativa affidabile.

Lorenzo Calamai

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