Karne Hesketh, la felicità è un Sol levante

I cambiamenti, a volte, tendono a far paura. Altre, invece, ti fanno riscrivere la storia del rugby

Karne Hesketh

Karne Hesketh

L’allenatore ti chiede di cambiare ruolo, la concorrenza ti spinge a cambiare aria. L’Anonima Piloni vi racconta di quando per Karne Hesketh, terza linea neozelandese, non tutto il male è venuto per nuocere.

Il capitano ha attaccato. Pesante, duro, come sempre. Due metri dalla linea, tempo scaduto. Dobbiamo giocarla da questa parte. Allargano tutti, poi la prende Mafi, che allarga il compasso. Fa una curva da quattrocentista. Viene verso di me. Mi allargo anch’io, lui ne ha due addosso, capisco al volo. La palla è ancora in volo, io sono già partito. La prendo, corro.
Alt.

Vi ha mai detto nessuno, nella vostra carriera o nella vostra vita, che a non cambiare mai non si impara poi molto? O almeno, ve l’hanno fatto mai capire? Certo che sì, alzate quelle manacce. E non incazzatevi troppo, non ne avete motivo. Vi hanno fatto un favore, vi hanno aperto gli occhi, anche se forse non era questo il loro obiettivo. Vi hanno detto che fossilizzarvi sarà pure rassicurante, ma non vi porta poi molto lontano in quel che volete fare.
Guardate me, per esempio: da ragazzo ero una terza linea.
Una signora terza linea.

Un metro e 80 scarso, un quintale di ossa e muscoli, veloce. Magari non bravo nell’evitare l’avversario ma con la mia mole non serviva: passavo sopra a tutto e tutti. Travolgevo qualsiasi cosa si frapponesse tra me e la meta. Uscito dal college, però, mi sono accorto che tutto questo non può bastare, se vuoi veramente sfondare (ah ah, bel gioco di parole!): trovi gente più grossa, più affamata. Gente che a rugby non ci gioca solo per una borsa di studio, ci gioca per vivere. È tutta un’altra storia. Sfondare è diventata dura, ero veloce si, ma anche gli altri mica scherzavano. E allora bisogna diventare bravi a difendere forte, far prendere paura agli avversari, metter loro il dubbio: questi devono capire che di qua non si passa. Gli altri erano bravi, io meno. Ho odiato parecchio il mio allenatore, il giorno in cui mi comunicò che sarei stato aggregato ai trequarti. Il sole di Otago mi sembrò più opaco del solito. Beh, dai, lo sapete cosa dicono gli avanti dei trequarti, insomma. Se mi sono girati i coglioni!

Poi ho ingoiato il rospo e mi sono fatto un mazzo ancora più grande del solito. Centro, qualche volta ala. L’allenatore mi aveva fatto un favore mica da poco: in velocità me la giocavo con tanti dei miei compagni, ma dalla mia avevo l’impatto fisico forgiato in anni di battaglie sui punti d’incontro. Giocarsi un posto da titolare era durissima, c’era gente come Ben Smith, sì, quello che gioca estremo con gli All Blacks. E poi Fetu’u Vainikolo, nazionale con Tonga. Questi volano, sono treni. E difendono alla grande, quando serve. Io meglio di un tempo, ma non come loro. Non ho molto spazio qui, segno 14 mete in 35 partite, che non è male. Ma dopo 4 anni in cui il campo lo vedo poco forse è ora di cambiare aria. Sapete, è dura nascere e crescere da rugbista in Nuova Zelanda: tutti sognano la maglia nera per eccellenza, ma siamo in tanti, veramente in tanti a giocarcela. E se cominci ad avere venticinque, ventisei anni e al piano di sopra, nel Super Rugby, nessuna franchigia vuole mettere il tuo nome su una loro carta intestata le speranze di inscenare l’haka nel prossimo test match contro una europea, o contro il Sudafrica per dire, diventa durissima. E allora, forse, è il caso di richiamare quel giapponese che si era fatto avanti qualche mese fa. Pagano bene, da quelle parti, e il livello è più o meno questo. Finisco a giocare per i Sanix Blues, a Fukuoka. Beh, posso sempre dire di aver giocato coi Blues, un giorno o l’altro. E posso sempre dire che in casa mia ci sarà sempre una maglia nera degli All Blacks. Quella della mia fidanzata, Carla Hohepa, una che veramente fa la differenza.

Io, nel frattempo, faccio il mio.
Non è male il campionato, ci sono tanti neozelandesi, qualche samoano. Persino un paio di sudafricani. Fisicamente me la gioco bene qua dietro, segno una meta ogni due partite, più o meno, ma i giapponesi ci fanno una concorrenza che non avete idea: vogliono imparare, vogliono migliorare. Spendono per il rugby come da noi, forse di più. Sono disposti a tutto. E migliorano alla grande.

Un paio di anni fa mi arriva una strana chiamata, dicevano di essere della federazione e si sarebbero sentiti onorati della mia presenza in Nazionale.
Ok, so già cosa state pensando.
Un neozelandese che gioca un Mondiale con un’altra maglia sta dichiarando la sua inferiorità, sta entrando dalla porta di servizio.
Pensatela come volete.

Io una Coppa del Mondo me la voglio giocare. I giapponesi in fondo mi hanno dato tanto, meritano che io dia tutto. E poi ci allena Eddie Jones, cazzo, Eddie Jones! Sarà anche australiano, ma quando mi ricapita di essere selezionato da uno così? Non sarà il più simpatico alle feste, ma ci ha fatto battere Galles e Italia.
Mi batto bene, segno due mete contro la Georgia. Quanto sono forti in mischia, questi. Quel Gorgodze fa paura, e pensare che credevo di aver giocato nel suo stesso ruolo, qualche tempo fa. Avercene.

Ai Mondiali debuttiamo contro il Sudafrica. Io sono in panca. Siamo tranquilli, anche se Eddie Jones vuole vincere la partita. La vuole vincere, a tutti i costi. Tocca le corde giuste. Ha sangue giapponese, sa cosa dire e come dirlo. Lo seguono tutti. E gli Springboks soffrono: non ci credono quando entriamo in dodici in maul, non capiscono nulla delle nostre linee di passaggio. Soprattutto non capiscono come facciamo, noi mediamente più piccoli e leggeri, a prenderli e dar loro quelle eliche ogni volta. Fanno meta, quattro volte, ma noi restiamo in scia, anche perché Goromaru non ne sbaglia dalla piazzola. Mica se l’aspettavano, di averci ancora tra i piedi a pochi minuti dal termine. Entriamo ancora nei loro 22, fanno fallo, cartellino giallo. Chiediamo mischia. Il pubblico ruggisce. Se non avete mai giocato in uno stadio così grande non potete capire quanto si senta il pubblico, se solo stiamo ad ascoltare. È che forse è meglio non ascoltare, tante volte, se non sapete mettere in pausa il cuore.

Sono in campo da qualche secondo. Ci proviamo. Il capitano ha attaccato. Pesante, duro, come sempre da quando si è trasferito qui dalla sua Australia, aveva 17 anni e non capiva nulla di nulla. Due metri dalla linea, tempo scaduto. Dobbiamo giocarla da questa parte. Allargano tutti, poi la prende Mafi, che allarga il compasso. Fa una curva da quattrocentista. Come faccia ad avere ancora quelle energie mica riesco a capirlo. Viene verso di me. Mi allargo anch’io, lui ne ha due addosso, capisco al volo. La palla è ancora per aria, io sono già partito.
La prendo, corro.

Pietersen scala verso di me, mi scorrono in testa tante idee. Vorrei prenderlo in pieno e portarlo dentro con me. Vorrei fintare e dargli l’internata, ma non è da solo e mi porterebbero fuori in ambulanza.
E allora corro in bandiera, lo evito, provo a girarci intorno.

Mi chiamo Karne Hesketh, ho 30 anni e provate a chiedermi qual è il momento migliore della mia vita. No, non questo, di poco, ma non è questo. Chiedetemi di quando ho trattenuto dentro di me un “Fuck” grande come una casa, quando il mio allenatore mi disse di fare il trequarti. Di quando l’unica via per una discreta carriera consisteva nel lasciare il mio Paese. Di quando ho cambiato tutto, e sono cambiato davvero. Chiedetemi se sono felice.
E ora scusate, ma Carla mi reclama. Era tanto che aspettava pure lei che oscurassi, almeno per un attimo, le sue 15 mete con le Black Ferns.

Sayonara.

Cristian Lovisetto – Anonima Piloni

 

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