“Sono solo uno a cui piace stare in una squadra” – Conrad Smith incontra OnRugby

Intervista al due volte campione del mondo: Pau, il rugby francese, la Rugby World Cup e cosa pensa Conrad Smith di Conrad Smith

ph. Sebastiano Pessina

VERONA – Qualche anno fa, ad un tavolo di una misconosciuta club house della provincia rugbystica italiana, un noto giocatore neozelandese trapiantato nel nostro paese pontificava, chiedendo ad un gruppo di ragazzi seduto con lui, fra cui lo scrivente, chi fosse secondo loro il giocatore più importante degli All Blacks. Le risposte si distribuivano equamente fra Richie McCaw e Dan Carter, con qualcuno che, credendosi più furbo, andava a scomodare Kieran Read. “Sbagliato – scuoteva la testa quello – è Conrad Smith.”

Ed eccolo lì, oggi, l’ex numero 13 degli All Blacks, due volte campione del mondo e il cui infortunio nel 2007 fu additato dai tifosi neozelandesi come la principale ragione per cui i loro beniamini non riuscirono a vincere quella, di Rugby World Cup. E’ sul campo del Verona Rugby, al Payanini Center, nell’ottica di un’iniziativa fra il club e un gruppo di tecnici della IRANZ, la International Rugby Academy of New Zealand. Il coinvolgimento di Smith, che oggi allena a Pau, dove ha chiuso la carriera, è stato in realtà collaterale a quello dei colleghi di stanza a Wellington.

A Verona l’ex All Black ha tenuto un camp di una settimana per under 18 da tutta Italia e una masterclass per gli allenatori nella giornata di venerdì.

In campo si è dimostrato disponibile, aperto, propositivo: il primo a prendere in mano il saccone per i placcaggi e a mettersi in gioco per i ragazzi ai suoi ordini. Fuori dal campo, prende il sopravvento la parte più umile, modesta e schiva del suo carattere.

Per prima cosa: congratulazioni. Ho visto che hai un nuovo ruolo nel tuo club, Pau.

Sì, dalla prossima stagione sarò High Performance Manager. Lavorerò per il club in tutte quelle aree dove possiamo migliorare, sia con i coach della prima squadra che con quelli della academy, e anche con il gruppo che si occupa del reclutamento per assicurarci di assumere buoni giocatori. Vogliamo avere una buona cultura di squadra, una leadership forte all’interno del gruppo, e quindi mi occuperò di tutte quelle aree che stanno intorno alla performance di una squadra professionistica, non solo delle questioni di campo. Ci sono un sacco di aspetti da tenere d’occhio: è un ruolo molto trasversale.

Un anno fa, in una delle prime interviste da allenatore dopo il tuo addio al rugby, dicevi che “fino ad ora mi accontentavo di arrivare in orario all’allenamento senza chiedermi davvero che cosa avremmo fatto”. Adesso, dopo appena un anno da coach, sei stato promosso ad un ruolo davvero importante in un club di Top 14, uno dei campionati più importanti del mondo.

Non è un ruolo che mi aspettavo di avere così presto, in effetti. Era qualcosa che il club aveva bisogno che io facessi, Pau ha attraversato un momento di grande cambiamento lo scorso anno [ l’head coach neozelandese Simon Mannix si è dimesso ad aprile, a 4 giornate dal termine del campionato, dopo il 71-21 subito a La Rochelle. Era al club da 5 anni]. Ho messo a disposizione il mio modo di vedere le cose e la mia esperienza personale al club. Non ho una preparazione per affrontare questo lavoro ma ho voluto cogliere l’opportunità, imparerò facendo e spero che questa sia la cosa migliore per la società.

Quanto ti aiuterà la tua esperienza da giocatore in questa tua nuova veste?

Quando giochi per tanto tempo, capisci di cosa ha bisogno una squadra.  Comprendi quali sono le cose dietro le quinte necessarie per far funzionare tutto, non solo quelle strettamente attinenti a ciò che accade sul campo da gioco. Specialmente in Nuova Zelanda, dopo aver passato tanto tempo nello stesso club, percepisci il grande lavoro che le squadre fanno per assicurarsi di avere valori forti e l’importanza di tutto quello che avviene fuori dal campo, e più giochi più impari ad apprezzare tutto ciò.

A questo punto ti chiedo: com’è la vita in Francia? Come ti trovi a Pau, sia in termini di vita quotidiana che a livello di vita all’interno del club?

Bene. Il principale motivo per cui io e la mia famiglia siamo ancora lì è perché ci piace la vita che facciamo. Mi piace il club, è una grande squadra. Sai, è una zona un po’ diversa dal resto della Francia, ma penso che faccia per me e si addica alla mia personalità. I miei figli crescono velocemente, stanno incominciando ad andare a scuola: stiamo alla grande.

Sei partito dalla Nuova Zelanda già con l’intenzione di rimanere o doveva solo essere una tappa della tua carriera?

No, volevo solo passare un periodo di tempo a vivere in Europa, ma poi ci siamo trovati bene e abbiamo deciso di rimanere. Ci manca ancora la Nuova Zelanda e un giorno probabilmente torneremo, ma per il momento siamo felici in Francia.

Stando in Francia e allenando una delle squadre del Top 14, il rugby transalpino è sempre sotto i tuoi occhi. Pensi che qualcosa stia cambiando nel massimo campionato? Quest’anno abbiamo visto Tolosa, Clermont e altre squadre di alto livello provare a proporre un rugby un po’ diverso da quello a cui il pubblico francese è stato abituato negli ultimi anni, fatto di soprattutto di grandi fisici e scontro frontale.

Sì, credo che sia vero. Le squadre che hanno avuto successo nell’ultima stagione hanno giocato un bel tipo di rugby. Ci sono comunque ancora un sacco di altre squadre che sono più tradizionali nel loro approccio, ma penso che il fatto che chi ha vinto il Top 14 abbia proposto un certo stile sia un buon segno e abbia imposto una attitudine positiva verso un rugby più propositivo. E’ sicuramente un qualcosa di entusiasmante per il rugby francese.

Ti ho fatto questa domanda per poi trasporla un po’ a livello generale. C’è secondo te un trend che si sta sviluppando che vede giocatori magari meno grandi di una volta, ma con delle qualità maggiori nell’uno contro uno? Un rugby, insomma, meno basato sugli scontri fra grossi erbivori da pianura e più su altre qualità, come ad esempio quelle che erano le tue?

Per come la vedo io il rugby avrà sempre posto per giocatori di tutte le taglie, ma non c’è dubbio che gli atleti siano sempre più grossi e forti, quindi no, non sono d’accordo. Forse il peso in termini di chili sta, in media, scendendo ma i giocatori sono sempre più preparati, più veloci, più esplosivi, più potenti. Da questo punto di vista le cose migliorano sempre di più, grazie ad un sempre maggiore professionismo. La cosa buona del rugby è che non c’è un solo modo di giocare, non c’è un solo tipo di giocatore, non c’è una sola abilità da allenare, e questo fa sì che ci sia sempre posto per giocatori piccoli o che fanno le cose diversamente destinati ad avere successo. E non credo che questa sia una cosa che cambierà.

A proposito di cambiamenti. Sei uno dei rappresentanti della IRPA, la International Rugby Players’ Association, il sindacato dei giocatori. Recentemente ti eri detto scettico in merito alle proposte di cambiamento del regolamento sull’altezza legale del placcaggio. Qual è la tua posizione in merito, cosa pensi delle ultime proposte di variazione alle regole e quale credi sia la strada per garantire un sempre più alto livello di player welfare?

Ovviamente penso che sia un’ottima cosa che World Rugby si stia muovendo per prendere provvedimenti e trovare soluzioni al fine di rendere il gioco più sicuro. I problemi che si trova ad affrontare sono comuni a tutti gli sport di contatto, e noi come associazione dei giocatori siamo stati di totale supporto alla federazione internazionale. La nostra preoccupazione è che i cambiamenti non vadano ad intaccare la natura del nostro sport, e non sono il solo a pensare che alcune delle proposte messe sul tavolo cambierebbero troppo il gioco e non necessariamente andando nella direzione di una maggiore sicurezza. E’ solo questo il motivo per cui dobbiamo essere molto cauti e passare attraverso tutti gli step necessari, con periodi di prova delle variazioni, vedere se si conciliano con il resto delle regole, se funzionano e se effettivamente rendono il gioco più sicuro lasciando intatta la natura del gioco del rugby, con le sue abilità e le sue peculiarità. Le mie opinioni in proposito sono inoltre espressione di quelle degli altri giocatori, visto che il mio ruolo in pratica è quello di riportare i loro pareri. Quello che ho appena detto in proposito, infatti, rispecchia un sentimento comune.

Sei stato un giocatore di successo, ma guardando indietro alla tua carriera da giocatore, qual è la narrazione di te stesso che hai sviluppato in retrospettiva? Dall’esterno la tua sembra una storia che rispecchia una struttura narrativa classica: c’è un personaggio principale che, da una situazione positiva, è costretto ad affrontare delle sfide, delle difficoltà, come nella fattispecie la serie di infortuni che ti ha tenuto fuori a lungo nella prima parte della tua carriera e ti ha costretto a saltare il mondiale 2007. Poi il personaggio principale vince la sfida e si può andare verso il lieto fine. Però poi c’è chi questa serie di eventi l’ha vissuta sulla propria pelle, e ha magari un’idea completamente diversa della storia.

Mi sento uno che per certi versi è stato fortunato: sono stato un giocatore che ha avuto successo, ho giocato al fianco di grandi giocatori e sono riuscito a vincere alcuni trofei. Ho fatto delle cose grandiose con gli All Blacks e con gli Hurricanes, ma sono semplicemente uno a cui piace stare in una squadra. Le mie aspirazioni da giocatore sono sempre state quelle di aiutare la squadra a fare meglio ed è ciò a cui ho sempre cercato di contribuire. Quando ho smesso di giocare è stato semplicemente perché avevo bisogno di una nuova sfida, solo facendo parte di un altra squadra, che sia la squadra dei tecnici del club o qualche altro gruppo. Direi quindi che sono essenzialmente un team guy, non mi è mai interessato raggiungere obiettivi individuali, non è quello che mi diverte. L’elemento squadra è sempre stato quello che mi piace di questo gioco, così come ovviamente anche il raggiungimento di un obiettivo, ma ciò che tiene alto il mio livello di motivazione è far parte di una squadra.

Parliamo di Rugby World Cup. Se dovessi dire una squadra e un giocatore che potrebbero sorprendere al torneo mondiale, chi ti viene in mente?

Uff, domanda difficile. Penso che la cosa bella della Rugby World Cup sia che non puoi davvero considerare nessun un outsider. Penso che l’Argentina farà un torneo migliore di quanto tanti si aspettino. E anche il Galles. L’Inghilterra e la Nuova Zelanda sono le squadre più forti, e credo che il Sudafrica riuscirà ad arrivare in semifinale. Fra le squadre minori ci sono le Fiji che hanno una squadra forte, ma devono superare un girone davvero difficile. Sarà una World Cup molto dura, forse la più dura di sempre, visto che c’è una competitività sempre maggiore.
Per quanto riguarda i giocatori, è ancora più complesso rispondere. Posso parlare dei neozelandesi, anche se sono praticamente tutti piuttosto noti. Non so chi giocherà in mezzo al campo, ma a me piace molto Jack Goodhue. Se partirà dall’inizio, ed è un grosso se, potrà mettersi in mostra anche con coloro che finora non avevano imparato a conoscerlo. E’ davvero un giocatore di qualità.

Che cosa sta succedendo agli All Blacks? Voglio dire, in maniera un po’ provocatoria, che siamo abituati a vederli giocare e vincere meglio di così. Pensi che ci sia qualcosa da aggiustare prima che incominci la World Cup?

L’obiettivo è raggiungere il massimo livello alla World Cup. Non sarei così preoccupato del fatto che non siano al massimo per il momento, come magari facevamo in passato e siamo rimasti senza vincere la coppa per 20 anni. C’è stata una cosa che abbiamo imparato, quando giocavo negli All Blacks: c’è effettivamente un beneficio nel non mostrarsi, nel tenere delle cose da parte, e raggiungere il livello a cui vuoi essere nel momento dell’anno in cui serve. Penso sia questo che stia succedendo agli All Blacks. Nel 2015, la gente diceva esattamente le stesse cose di adesso, ma poi è incominciato il torneo e abbiamo giocato benissimo quando contava.

Stai seguendo il Rugby Championship? C’è qualcosa che secondo le squadre stanno incominciando a mostrare in ottica Rugby World Cup? Qualche tentativo, qualche novità?

Gli Springboks hanno fatto vedere un’ottima struttura difensiva, un tipo di blitz defence per impedire agli avversari di giocare al largo che però non è nella stretta sostanza né qualcosa di nuovo né qualcosa che solo loro provano a fare. E’ difficile leggere questo Rugby Championship, perché è vero che le squadre lo stanno usando un po’ come un laboratorio, ma al tempo stesso ci sono anche tante cose che non voglio far vedere. Penso che si sia visto qualcosa di più nel Sei Nazioni, con un uso interessante del gioco al piede. Ci sono stati lunghi periodi di gioco lento, con calci dal box dei numeri 9 e tante contese in aria, una peculiarità sempre più importante. E forse sarà proprio questo quello che vedremo di più alla Rugby World Cup: le condizioni in Giappone saranno buone per giocare un rugby a tutto campo e mi aspetto un utilizzo migliore e più frequente del gioco al piede. Non per il territorio, ma come arma offensiva per scardinare le difese più forti.

Chiudiamo con tre domande secche, a raffica. Squadra più dura contro cui giocare?

Gli Springboks, senza dubbio.

Il giocatore avversario più tosto da affrontare?

In questo caso direi Stirling Mortlock.

Il tuo ricordo più bello sul campo da gioco?

Ogni vittoria in Sudafrica, la sfida più dura.

 

Lorenzo Calamai

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