Italrugby femminile, la nuova vita da capitana di Manuela Furlan: “E’ un onore. Sono una persona che fa spesso autocritica. I nuovi innesti arriveranno”

La nuova, ultima grande sfida per l’estremo della nazionale, che ha appena ricevuto questa investitura

ph. Sebastiano Pessina

Ricevere la nomina da capitano della nazionale le ha provocato dentro un mix di emozioni non certamente facile da spiegare, eppure Manuela Furlan ha fatto un bel respiro e con tutta la calma del caso a spiegato a Onrugby che cosa sta succedendo all’interno, all’esterno e intorno alla rappresentativa femminile. Dall’azzurro all’esperienza inglese passando per la sua visione del campionato e il tentativo di riuscire sempre a conciliare la vita lavorativa con quella da campo. Ecco la sua intervista.

Manuela, buongiorno, ci spieghi come è avvenuta la scelta del cambio di capitano e per quale motivo è ricaduta su di te?
“Secondo il nostro allenatore Andrea (Di Giandomenico, ndr) c’era bisogno di un cambio di testimone in vista del Sei Nazioni e della qualificazione ai Mondiali 2019 e per designarmi ha usato la metafora più classica che utilizza per un estremo: “Hai sempre coperto le spalle a tutte le compagne, perchè non continuare a farlo anche in questa veste”. Non nascondo che la notizia è arrivata a me e al gruppo come un po’ come un fulmine a ciel sereno. Ci ha preso in contropiede, anche perchè non penso che ci sarebbero stati problemi se Sara Barattin avesse continuato a mantere i gradi di capitano. Lei comunque rimarrà nel gruppo e anzi ti dico che avrò bisogno di lei, sarà di grande supporto”.

Quali sono le tue sensazioni adesso, e che tipo di capitano pensi di essere: autorevole con la parola o di appoggiandoti al leading by example?
“Il presupposto iniziale è che non mi aspettavo tutto questo. E’ stato un susseguirsi di emozioni, anche perchè pensavo che questo potesse essere lontano dalla mia persona, ma poi ho pensato che sarebbe stato un onore farlo e ho accettato dopo una valutazione dei “Pro” e dei “Contro”; in generale sono una persona che fa spesso autocritica.
Venire dopo capitani come Silvia Gaudino e Sara Barattin, che sono due persone che raccordavano parole ed esempio, non sarà facile ma io mi sento più una giocatrice che può dare l’esempio in campo”.

Parliamo, appunto, del campo: a novembre vi sono in calendario due Test Match, non certamente una cosa usale (anche rispetto all’anno scorso quando sfidammo a Biella la Francia). Ormai vi state quasi uniformando agli uomini?
“La Federazione sta svolgendo un ruolo fondamentale per la nostra nazionale: nel 2012 ci era già capitata questa possibilità, quando affrontammo Stati Uniti e Canada, ma da allora non avevamo più avuto chance di questo tipo. Speriamo che sia di buon auspicio verso il Sei Nazioni, così come lo fu poi per il torneo del 2013”.

Scozia a Calvisano e Sudafrica a Prato: nazionali diverse per tradizione e filosofia. Cosa dobbiamo aspettarci?
“Le scozzesi negli ultimi anni ci hanno messo sempre più in difficoltà testimoniando sul terreno di gioco che il loro investimento sul femminile funziona. Dobbiamo stare attente alla loro voglia di rivalsa, rispetto all’ultima sfida del Sei Nazioni (quando a Padova finì 26-12 per le azzurre, ndr), ma sappiamo che questa sfida che si preannuncia tostissima ci servirà per studiarle al meglio. La nazionale sudafricana invece sarà per noi è un’incognita. Con qualche altra ragazza della nazionale, le ho affrontate personalmente a livello Seven in un torneo svoltosi ad Hong Kong qualche tempo fa, ma il resto è un punto di domanda. Come movimento sembra che vogliano tornare a reinvestire sul rugby a 15, ma non sappiamo quali avversarie di preciso ci troveremo davanti. Le uniche informazioni che abbiamo ci dicono che doti di forza e soprattutto velocità”.

Molti, in sede di presentazione, hanno inquadrato queste due contese come un’occasione per inserire nuove ragazze nel gruppo azzurro, eppure osservando le convocate verso la Scozia si osserva che vi sono solo tre possibili innesti. E’ così difficile muovere dei tasselli in gruppo rodato o il percorso di inserimento deve essere fatto gradualmente?
“Dal termine dell’ultimo Sei Nazioni alcune giocatrici hanno lasciato l’attività internazionale e altre, come ad esempio Giada Franco, stanno arrivando in nazionale. C’è però una base di ragazze che va “rispettata” e piano piano gli innesti arriveranno. La cosa prenderà corpo durante le prossime partite: è possibile poi che durante il Sei Nazioni 2019 il tutto sia più accentuato”.

Con la nazionale protagonista, il campionato femminile è inevitabilmente fermo e questo ci permette di fotografare il torneo: una competizione in ascesa e molto inclusiva, ma che certamente presenta uno squilibrio fra il Girone 1 e il Girone 2. Tu che idea ti sei fatta, secondo te esiste un modo per “avvicinare” le cose?
“Secondo me, in questo caso, ci vuole un gran lavoro delle società. L’investimento sul femminile è cresciuto e questo è positivo: più figure tecniche si mettono a disposizione e più la cosa aiuta a migliorare. Attualmente è difficile fare un campionato a girore unico, anzi penso che più squadre ci siano e meglio sia. E’ ovvio che il livello diverso si veda, ma non va trascurata la base di partenza economica. Tutte le società cercano di fare del loro meglio e penso che si possa capire osservando anche le convocazioni della nazionale: ci sono tante ragazze che arrivano da diversi club”.

Manuela, tu come le altre, sappiamo che non siete professioniste: ci racconti di cosa ti occupi nella vita quotidiana e come riesci a conciliare questo con la tua attività di gioco?
“Lavoro per una ditta di logistica a Treviso: guido muletti, un lavoro un po’ maschile. Nei prossimi giorni sapranno che diventerò la capitana della nazionale femminile, anche se in azienda conoscono quello che faccio e gli impegni che ho.
Lavoro dalla mattina al pomeriggio, poi vado a fare gli allenamenti in campo (tre a settimana) e delle sessioni in palestra. E’ faticoso, ma se l’obiettivo è alto deve essere alto anche il livello del sacrificio. In questi anni ho visto comunque che il lavoro svolto ha dato i suoi frutti, in realtà è una cosa che mi piace e non mi pesa farlo”.

Nel tuo passato ovale c’è stata anche un’esperienza all’estero con la maglia delle inglesi delle Aylesford Bulls, che ti ha portato alla vittoria del torneo femminile d’Oltremanica. Cosa ti porti dentro?
“Rugbisticamente parlando ho proprio scoperto un altro mondo. Hanno un’apertura mentale pazzesca nei confronti di chi pratica questo sport: una ragazza che gioca a rugby, lì è una cosa normale qui da noi invece ti guardano con gli occhi spalancati. Ci sono uno spirito e un approccio completamente diverso. Inoltre gli allenamenti sul campo (solitamente due a settimana) sono fatti ad un livello di intensità e di cura dei dettagli maniacali, grazie a preparatori e allenatori. Il resto della preparazione è affidato personalmente ad ogni giocatrice, come ad esempio le sessioni in palestra, ed è normale che tutte la svolgano per contro proprio. Anche lì le rugbiste sono lavoratrici, ad eccezione delle nazionali inglesi, e conciliano tutto senza problemi. Quell’esperienza mi ha insegnato a vivere il rugby in maniera diversa”.

Di Michele Cassano

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