Il paradosso Carlo Canna

Il numero 10 è il leader tecnico delle Zebre, soprattutto dopo l’arrivo di Bradley, ma in nazionale è sparito dal Sei Nazioni in poi

ph. Sebastiano Pessina

Un paio d’anni fa, il suo allenatore delle Zebre Gianluca Guidi dichiarò che aveva tanta cazzimma, un termine di fatto intraducibile dal napoletano. Volendo usare le parole di un partenopeo doc come il compianto Pino Daniele, potremmo definirla come “la furbizia accentuata, la pratica costante di attingere acqua per il proprio mulino, in qualunque momento e situazione, magari anche sfruttando i propri amici più intimi, i propri parenti […]. È l’attitudine a cercare e trovare, d’istinto, sempre e comunque”. Furbizia e istinto hanno contribuito grandemente a forgiare la figura di Carlo Canna, il destinatario di quelle parole di Guidi e, come la cazzimma, un elemento unico nella sua categoria d’appartenenza. Nel bene e nel male.

L’unicità di Canna è sotto gli occhi di tutti fin dai suoi esordi in campo internazionale. Al primo vero spezzone di gara giocato, nel 2015 contro il Galles al Millennium Stadium (non consideriamo i pochi scampoli contro la Scozia nei due match precedenti), il beneventano attirò molte attenzioni per sicurezza mostrata in campo, un drop non semplice segnato con scioltezza e una regia di qualità. La capacità di calamitare attorno a sé l’interesse della difesa avversaria e di  chi guarda da fuori le azioni dell’eccentrico, rugbisticamente parlando, Canna è una peculiarità del giocatore ancora oggi. È, allo stesso tempo, il suo più grande pregio e il suo grande difetto.

Se non era già chiaro in precedenza, l’ultima stagione ha invece amplificato e chiarito in via definitiva questo concetto, restituendoci un giocatore dal profilo netto dal punto di vista tecnico. Un rugbista tanto inequivocabile quanto imprevedibile: le sue qualità e le sue problematiche sono ben distinguibili durante gli ottanta minuti di una partita, ma ogni pallone toccato potrebbe essere il preludio ad una giocata stupefacente o terribilmente nociva per la squadra.

Con Carlo Canna, insomma, è difficile scendere a compromessi. L’avrà capito anche Michael Bradley, che da quando è arrivato alla guida delle Zebre sembra aver deciso di togliere ogni freno inibitore all’inventiva e alla fantasia del beneventano. Forse lo stesso Canna non aspettava altro, perchè perlomeno in bianconero la stagione 2017/2018 è stata di gran lunga la migliore della carriera per lui.

Affermare che Canna abbia avuto un ruolo di primo piano nel gioco di Bradley è quasi eufemistico. Il numero 10 dei ducali è stato spesso totalizzante per la franchigia federale, in un’immedesimazione tecnica e tattica tra giocatore e squadra con pochi eguali. Se bisognava rappresentare le Zebre garibaldine e spregiudicate dell’ultima stagione con un’immagine, Canna era senz’altro l’icona più fedele in questo senso. E probabilmente lo potrebbe essere ancora per gli anni a venire, se le Zebre dovessero continuare su questa strada.


Quando è in giornata, Canna è semplicemente divertente.
Quanti giocatori italiani che non si chiamano Sergio Parisse hanno la confidenza per fare cose del genere?

Nel sistema fluido e senza troppi vincoli impostato dallo staff zebrato, Canna si è ritrovato in una squadra costruita a sua immagine e somiglianza, con tanti giocatori pronti ad essere premiati per i loro tagli interni e a ricevere il pallone già sulla linea del vantaggio. Il beneventano preferisce sempre mettere alla frusta le difese, pur basandosi spesso sul proprio istinto piuttosto che sul ragionamento. Come si può facilmente intuire, non sempre quest’attitudine paga altissimi dividendi, soprattutto quando lo stesso Canna pecca nelle esecuzioni o si lascia trasportare troppo dalla (legittima) fiducia nei propri mezzi.

Come già accennato qualche riga più su, tuttavia, nel momento in cui tutti gli astri sono allineati e il 10 decide di prendere per mano le Zebre, Canna dimostra di essere un vero e proprio generale anche in momenti di difficoltà, guidando la squadra fuori dalle sabbie mobili in quei momenti. Nella passata stagione, ad esempio, è successo in due occasioni – una delle quali è coincisa con una vittoria ducale: contro il Connacht, in casa, quando i bianconeri dovevano rimontare lo svantaggio; contro il Benetton, sempre a Parma, nell’impetuosa reazione che ha portato alla meta di Bellini subito dopo quella di Hayward.

Il calcetto a scavalcare la difesa per riprendersi il pallone sta diventando un suo marchio di fabbrica, a proposito.Una stagione paradossaleCarlo Canna, insomma, non è un giocatore convenzionale, perlomeno se paragonato a molti mediani d’apertura del recente passato italiano più ligi al dovere di distribuire in maniera ordinata e non commettere troppi errori, senza assumersi rischi eccessivi. Il beneventano siede esattamente all’opposto rispetto agli altri: ama giocare sul filo del rasoio, cerca di non essere mai banale nelle proprie scelte e si avventura in situazioni folli anche quando non sembra necessario, come avvenuto ad esempio durante Zebre-Pau con una palla persa sulla propria linea di meta.

 

Lo yin di Carlo Canna che bilancia lo yang.

Il paradosso della stagione 2017/2018 del giocatore, tuttavia, riguarda soprattutto il suo rapporto con la nazionale. Nonostante il cambio di strategia operato da Conor O’Shea con il passare dei mesi, che ha portato l’Italia ad avere molto di più il pallone in mano rispetto alle prime partite del 2016/2017, il mediano delle Zebre ha dimostrato di non trovarsi a proprio agio nemmeno con un piano di gioco che meglio poteva confarsi alle sue caratteristiche.

Dall’altra parte, nemmeno lo staff tecnico azzurro è sembrato molto propenso ad affidare le chiavi dell’attacco azzurro al beneventano nell’ultimo anno, nonostante le ottime prestazioni offerte con la franchigia nel corso di tutto il campionato. Il disegno pensato da Conor O’Shea, con tutta probabilità, prevedeva Tommaso Allan titolare già dai Test Match di novembre contro Fiji, Argentina e Sudarica, ma a causa di un infortunio il mediano del Benetton non ha potuto essere disponibile.

Dal primo minuto, in tutte e tre le partite, è toccato a Canna, che però è parso ingessato e lontano dai suoi standard. Non che abbia giocato così male; semplicemente, è rimasto dentro i binari di un piano di gioco meno aggressivo, più prudente e in cui l’istinto non avrebbe potuto sopraffare il ragionamento. Nella fattispecie di Carlo Canna, tuttavia, ciò significa non poter esprimere a pieno la propria personalità: un disagio notevole, soprattutto se da un modo di intendere il rugby molto estroverso e ricco di ricami si passa ad un gioco più ordinato e iscritto in schemi e regole più rigide.

Anche per questo, finora in Nazionale non ha mai avuto modo di incidere granché, se non con alcuni sprazzi comunque degni di nota come la sontuosa partita giocata a Parigi contro la Francia nel 2016, quando Canna è diventato il terzo giocatore di sempre a realizzare una full house (meta, punizione, trasformazione e drop nella stessa partita). Non banale.

Preferirgli un mediano di grande ordine e con una buona varietà di colpi a disposizione come Allan, in ogni caso, si è rivelata in segutio una scelta comprensibile viste le prestazioni di quest’ultimo, ma a sorprendere è stato invece il modo in cui Canna è stato totalmente ignorato da O’Shea. Nel Sei Nazioni ha giocato in totale 33 minuti, restando sempre in panchina contro l’Irlanda, mentre nei Test Match in Giappone non è addirittura mai sceso in campo.

Mettendo insieme alcuni elementi contestuali (il bacino ridotto da cui attinge la nazionale, i due/tre candidati al ruolo di mediano d’apertura in totale, il rendimento del giocatore nel Pro14 e le sue caratteristiche tecniche), ecco che la situazione appare inedita e quantomai bizzarra. Ma la piccola Italia, in cerca di grandeur e di un gioco offensivo più dinamico e moderno, può permettersi di rinunciare in maniera così plateale che ad un giocatore così unico?

Daniele Pansardi

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