Nel mondo di Andrea Cavinato

Abbiamo intervistato il nuovo allenatore del Mogliano, che ci offre il suo punto di vista su diversi temi

ph. Corrado Villarà

Ha scelto di trascorrere un anno a Montebelluna, in Serie C2, e non si può dire che se ne sia pentito. Per la prossima stagione, però, Andrea Cavinato non ha resistito alla proposta del Mogliano ed è tornato subito nella massima serie italiana, ribattezzata di recente Top 12. Personaggio tanto rispettato nel movimento nostrano quanto controverso, il tecnico trevigiano è al solito un fiume in piena e, nell’intervista rilasciata a On Rugby, non si smentisce.

Innanzitutto le chiedo cosa l’ha convinta a tornare in Top 12 e a prendere la guida del Mogliano

Non è che servisse convincermi molto. L’adrenalina che ti dà il rugby allenandolo all’alto livello nazionale è comunque importante e soprattutto mi ha convinto il progetto che mi ha sottoposto il mogliano di costruire una squadra attraverso il loro vivaio, estremamente competitivo e forte e di lavorare con ragazzi giovani e con una nuova struttura.

Che obiettivi si pone alla sua prima stagione alla guida di questo club, considerando anche i dieci volti nuovi e le diciotto partenze?

Sicuramente la salvezza. Dopodiché un giocatore e una società di rugby devono pensare come mi ha insegnato Georges Coste: in grande. Se uno non pensa in grande, difficilmente può andare avanti. Non vuol dire essere presentuosi, ma far capire ai propri giocatori che si può andare oltre i limiti prefissati e agli obiettivi determinati prima. Nulla è impossibile, sotto il mio punto di vista.

Negli ultimi anni il Mogliano si era spesso distinto per un gioco anche molto bello da vedere, quando funzionava. Attorno a quali princìpi si fonderà il suo Mogliano?

Non è mai l’allenatore che determina la qualità della squadra, ma i giocatori. La bravura di un allenatore non è nell’imporre il proprio gioco, ma sfruttare le qualità dei propri uomini. Nel primo Scudetto a Calvisano giocai praticamente con una mischia e una touche estremamente forte e dei trequarti che giocavano solo in contrattacco; il secondo Scudetto è arrivato con una mischia non così competitiva, ma con una squadra molto organizzata nell’attacco. Penso sia fondamentale capire quali sono i punti di forza e i punti deboli.

Abbiamo cercato di dare una solidità alla mischia, perché è stata carente lo scorso anno, mentre penso che Federico Dalla Nora abbia fatto un ottimo lavoro con i giocatori giovani. Sulla trequarti abbiamo inserito Jackman, che spero possa avere lo stesso impatto di Shaun Berne del mio Calvisano 2011/2012: un giocatore che sia da chioccia ai giovani.

Che atteggiamento si aspetta dai suoi giovani? E come giudica chi esce dall’Accademia? Tempo fa aveva riservato loro qualche critica.

Dicevo che i giovani che uscivano dall’Accademia erano un po’ presuntuosi e troppo sicuri di sé. Tra i ragazzi usciti di recente, invece, vedo che è stato fatto un notevole passo in avanti nella mentalità e nella capacità di capire che non sono già arrivati solo perché sono chiamati in Accademia, e che devono invece continuare a dimostrare.
Negli ultimi due anni si è vista questa nuova mentalità nelle Accademie Nazionali, forse anche per demerito mio, visto che le ho allenate a mia volta.

Qualcosa è cambiato, in positivo. Se c’è qualcuno che vuole negare questo, solo per dar contro alla Federazione e al presidente federale… Beh, queste persone le considero veramente delle persone che vanno contro gli interessi del rugby italiano. Sono giovani formati da tecnici di valore e in una struttura di valore. Poi se è uno invidioso… L’invidia è un brutto male.

Il Mogliano, come tutte le altre società venete di Eccellenza, sembra molto più legato al Benetton rispetto al passato. Cosa ne pensa di questo rapporto tra i club?

Quando allenavo il Petrarca, Conor ha girato tutte le società e ha parlato con tutti gli allenatori. E lo sta facendo ancora adesso. All’epoca mi ero confrontato molto anche con Ciccio De Carli e con i preparatori atletici. Ora a Mogliano è lo stesso: i preparatori si sono confrontati con quelli della Nazionale e delle franchigie. Tutto questo sparare contro la Nazionale e la Federazione, dire che non c’è organizzazione… Sono mezze verità o mezze falsità. Le chiamano fake news ora. Già c’erano nell’Antica Roma, quando mettevano mezze verità in giro per poi screditare le altre persone.

Credo che lo staff della nazionale stia facendo un buon lavoro, anche i video analyst sono molto disponibili. Tutto questo male, che in Veneto qualcuno vuole vedere nei confronti della Federazione, non esiste proprio. Forse il male principale sono loro, perché invece di costruire pensano a disfare quello che gli altri stanno facendo.

Questo cambiamento nei rapporti a livello tecnico tra club, franchigie e staff della nazionale però è avvenuto in tempi recentissimi. Molte critiche nei confronti della Federazione, in questo senso, erano condivisibili.

Quando ho vinto lo Scudetto a Calvisano nel 2005 ero già in ottimi rapporti con la Nazionale. Nel momento in cui hai bisogno di qualcosa, devi anche imparare a chiedere, non solo aspettare. Qualche giorno fa ho parlato con Franco Ascione, e gli ho chiesto di inviarmi una volta o due volte al mese un allenatore per i calciatori, perché onestamente non ne capisco niente di gioco al piede. E non me ne vergogno. Mi ha risposto che si sarebbe subito attivato e che Corrado Pilat o un altro tecnico regionale veneto sarebbe sicuramente venuto ad aiutarci.

L’importante è iniziare a dialogare, e non pensare che tutto ti debba essere dato e che tutto ti debba essere portato, e che se magari non te lo danno è per farti un dispetto. Forse sei tu a non chiederlo. La Federazione, in questi ultimi anni, si è mossa molto nel territorio. Chi dice il contrario lo fa solo per screditare il lavoro altrui o per interessi personali.

Nell’ex Eccellenza è cambiato qualcosa negli ultimi due anni perlomeno dal punto di vista tecnico? Ha visto un’evoluzione o è rimasto tutto immobile?

L’anno scorso ho seguito parzialmente, perché mi divertivo molto a Montebelluna in Serie C2 ed ero molto preso dall’allenare dei ragazzi che giocavano solo per piacere. Ho cominciato a vedere le partite e purtroppo ho visto, rispetto agli anni scorsi, un campionato molto mediocre a livello di gioco e di intensità. Si vedeva che alcune squadre giocavano senza pressione. D’altronde, quando non ci sono retrocessioni, è tutta un’altra cosa, io l’ho provato sulla mia pelle alle Zebre. Si fa molta fatica a motivare i giocatori in alcune occasioni; quando sai che non retrocedi fai il compitino, punto. Questa è la sensazione che ho avuto anche vedendo l’Eccellenza lo scorso anno. Senza retrocessioni, è stato un campionato estremamente falsato e con poco senso, secondo me. Che nessuno si offenda. Ho visto un rugby peggiore, spero ci sia più competitività dalla prossima stagione.

Basteranno delle retrocessioni per “sbloccare” il campionato?

Indubbiamente. Quando sai che non hai nulla da perdere, non hai mai la pressione e l’angoscia. È quello che ho provato con le nazionali italiane giovanili, o quando giocavo l’Heineken Cup con Calvisano. Facevamo partite stratosferiche, poi la stampa ci dava addosso perché con i Wasps campioni d’Inghilterra perdevamo 35-21 o 45-12. Poi quando andavamo a Catania rischiavamo di perdere. Lo stesso discorso si può fare con le nazionali giovanili. Facevamo la partita della vita con l’Under 20 contro Francia e Inghilterra; se le avessimo fatte anche contro la Scozia, avremmo sempre vinto. Quando hai la pressione di vincere, fare risultato o salvarti, cambia tutto. C’è poco da fare.

Non giochi più tanto per giocare, o per fare la partita della vita. Questo è uno dei più grandi mali del rugby italiano. Pensiamo alla Nazionale: anni fa abbiamo tenuto testa agli All Blacks, ma poi prendevamo 50 punti al Sei Nazioni da squadre inferiori. La mentalità vincente va costruita vincendo, dando consapevolezza ai giocatori che per farlo servono qualità fisiche, tecniche e mentali. Da allenatore del Mogliano, considerando che siamo arrivati ultimi, spererei che ci fosse lo stesso campionato, così sarà più facile salvarsi.

Un miglioramento del campionato passa anche da un atteggiamento diverso da parte di allenatori e arbitri: a che punto siamo secondo lei?

Tocchiamo un punto abbastanza dolente. Ogni volta che andavo ad un incontro con gli arbitri italiani, rispetto alle riunioni con direttori di gara del Pro12 o Sei Nazioni, il rapporto era sempre maestro/allievo. Loro ti dicono come arbitreranno e tu sei lì ad ascoltare. Se dici qualcosa, hanno sempre ragione loro. Non c’è modo di confrontarsi. Gli arbitri italiani stanno facendo un grosso lavoro a livello tecnico, ma devono imparare una cosa fondamentale: che non sono padroni del gioco. Sono lì per far giocare le squadre. La maggior parte, invece, si pone sempre in una situazione di superiorità e di antagonismo rispetto a giocatori e allenatori. Non è un caso che nelle coppe il gioco sia sempre più facile e fluido, ma non perché gli arbitri stranieri siano più bravi; sono più semplici. Riescono ad essere a contatto con tutti, senza essere spocchiosi.

Ti faccio un esempio. Prima dell’ultima semifinale con il Petrarca, abbiamo fatto due allenamenti con il responsabile degli arbitri per allenare insieme la mischia. Arriviamo alla partita di semifinale, vado dall’arbitro e gli spiego che è venuto questo tizio a fare degli allenamenti. La sua risposta: “Ah allora prenderai un sacco di calci contro”. Questa è la verità, ho testimoni. Se gli arbitri non si mettono d’accordo con il loro tutor, come possiamo pensare che i giocatori possano essere d’accordo con gli arbitri in campo?

Questo è un grossissimo problema in Italia. A certe riunioni ho assistito ad arbitri che litigavano tra di loro su una regola, davanti agli allenatori. Sono cose vergognose. Lo dico non perché sono Andrea Cavinato, ma perché dobbiamo lavorare tutti nella stessa direzione e non fare le primedonne. Troppi arbitri in Italia, invece, fanno le primedonne e mettono in discussione la carriera di parecchie persone. Loro possono dire “Eh, ma noi siamo dilettanti”, sì, ma con tre errori tuoi io vengo esonerato. Servirebbe più serenità.

A se stesso e agli altri allenatori, invece, che consiglio darebbe per migliorare?

Quello che dà sempre il presidente federale a me: parlare meno e lavorare di più.

Si parla molto della lega di club, ma di comunicazioni ufficiali ancora non ce ne sono. Alcuni mesi fa si diceva che le prime iniziative sarebbero state senza portafoglio. Secondo lei, quali provvedimenti nel breve termine dovrebbe prendere un’eventuale Lega per cercare di rendere migliore questo campionato?

Senza portafoglio non si fa niente. La prima iniziativa deve essere la creazione di un portafoglio, poi dare delle sicurezze a staff tecnici e giocatori. Il rugby italiano si basa sulla precarietà in Eccellenza, quindi è necessario avere delle polizze assicurative e una salvaguardia per le carriere delle persone, in modo che si possa lavorare con serenità e non sempre sentendosi in bilico.

Se non cominciamo a capire che gli staff di Eccellenza devono essere composti da professionisti correttamente retribuiti, con un’assicurazione e con la possibilità di avere una pensione, il rugby italiano non andrà mai avanti. Non può continuare ad essere sempre una cosa solo buttata lì. Un’altra cosa molto importante, secondo me, è trovare un nome, perché il nome di Eccellenza viene confuso con il campionato calcio. Meglio riprendere a chiamarlo Top 12, come si faceva un tempo. Se lo chiami Serie A Élite, e poi hai la Serie A, è difficile capire per tifosi e sponsor di cosa si tratta (nel frattempo, il campionato è stato effettivamente rinonimato come Top 12. L’intervista è stata realizzata giovedì, ndr).

La prima cosa che dovrebbe fare la lega è sviluppare dei dirigenti con competenza. Molte volte si guarda alla competenza di allenatori, preparatori e giocatori, ma mai a quella di direttori sportivi e manager. Parlo di una squadra, come la definisce Giampaolo Montali, invisibile. E se non è di qualità questa, nemmeno quella visibile avrà qualità. A livello di club è un altro grande problema.

Poi c’è anche una questione di immagine. Arrivi in certi campi che, diciamo la verità, sono inqualificabili per la massima serie. Sono vergognosi. Nelle dirette streaming ci sono persone in panchina che fumano, con i calzettoni sopra la tuta, disordine… Come architetto, penso anche ad una questione di visibilità. Non si può più vedere gente che bestemmia, secchi d’acqua a bordo campo… Bisogna dare una regolamentazione. Sai che la partita sarà data in diretta streaming? Devi avere determinati standard. Certe volte si vedono delle sciatterie incredibili. La forma non deve superare la sostanza, per carità, ma nemmeno si devono vedere alcune cose da anni ‘50. Dovremmo pensare molto meno al terzo tempo e di più al primo e al secondo.

L’ultima domanda riguarda la sua sfera personale. In quali aspetti si sente arricchito – umanamente e professionalmente – questi ultimi anni di carriera, molto particolari per un motivo o per un altro, trascorsi tra Pro12 Eccellenza e Serie C2?

Come tutti, in questi anni ho incontrato persone stupende e persone che farei fatica a salutare. Dalle Zebre ho imparato la professionalità, da un mondo estremamente diverso da quello rugbistico italiano; l’organizzazione, la puntualità, l’uso di poche parole ed essere diretti, la fatica di essere davvero professionista e del viaggiare in continuazione… Ho imparato a gestire giocatori di varie nazionalità e con interessi completamente opposti.

A Calvisano, allo stesso modo, ho appreso tantissimo. Se Calvisano fosse in Veneto, vincerebbe uno Scudetto dietro l’altro a mani basse con la capacità organizzativa e gestionale. Sono particolarmente legato alla città: lì è nata la mia prima figlia, ho vinto Scudetti… Quando torno, la gente mi saluta e mi ama nonostante abbia fatto anche lì delle cavinatate.

Al Petrarca considero una grandissima persona Enrico Toffano, così come altri giocatori del Petrarca. Non però quelli che sono all’interno della società in questo mmento, perché credo siano il problema vero della società. Toffano sa guardare avanti, così come lo stesso Alessandro Banzato. Non conoscevo davvero cosa significasse lo spirito d’appartenenza, che è unico a Padova. Non ho mai lavorato con un potenziale così enorme come il Petrarca. Ha una struttura e una possibilità economica che vanno oltre ogni immaginazione, e diventa difficile capire l’ottusità di certe persone.

Per Montebelluna tanto di cappello. Parliamo di giocatori che pagano per giocare, una realtà in cui ci si allena dopo aver lavorato in fabbrica o nei vigneti alle otto e un quarto di sera. Quel rugby viscerale, meraviglioso, fatto di lealtà e felicità. Credo che molti allenatori dovrebbero ritornare indietro e capire quanto bene al rugby vuole questa gente. Noi che abbiamo fortunato a livello più professionale dovremmo farlo ancora meglio solo per gratificare queste persone, che poi vanno allo stadio a vedere la nazionale e tifano. Senti i ragazzi di Montebelluna parlare di giocatori che per me sono la normalità.

Una volta ho incontrato Totò (Perugini) e Castro a Treviso, per una partita delle Zebre, e mi son messo a parlare con loro. E i ragazzi di Montebelluna da lontano mi guardavano: li ho chiamati e ho detto loro di venire da me, per presentarglieli. Per loro era come vedere degli dei. Di questo non ci rendiamo conto. C’è ancora questa grande forza motrice nel rugby italiano che non sfruttiamo a pieno.

Daniele Pansardi

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