Breve, medio e lungo periodo: obiettivi e sfide di Conor O’Shea

Il tecnico irlandese guarda al futuro del movimento. E per il 2019 vuole una squadra “alla Venter”

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ph. Sebastiano Pessina

Dopo il tour delle Americhe di giugno e la finestra autunnale, è arrivato per la Nazionale targata coach O’Shea l’appuntamento più prestigioso, quello con il Sei Nazioni. Un vero e proprio banco di prova per Parisse e compagni e in generale per la punta di diamante del nostro movimento, per capire veramente e in modo più profondo rispetto alle tre sfide novembrine a che punto siamo rispetto agli avversari nel nostro processo di crescita. E i cinque esami non potrebbero essere più difficili, contro squadre che hanno contribuito negli ultimi mesi a diminuire/annullare il gap tra i due Emisferi. Le motivazioni non mancheranno a nessuno: l’Inghilterra in striscia aperta di 14 vittorie consecutive, l’Irlanda capace di battere gli All Blacks e con le province che volano in Europa, la Francia che deve portare a termine la cura Noves, la Scozia consistente come mai negli ultimi anni e il Galles alla ricerca della forma migliore.

 

Ma dalla conferenza stampa di presentazione nazionale del Sei Nazioni, che si è tenuta a Roma nella mattinata di lunedì, lo sguardo di coach O’Shea è andato ben oltre i prossimi due mesi. “Come gruppo dobbiamo pensare al breve, medio e lungo termine – ha dichiarato il tecnico irlandese – Essere competitivi al Sei Nazioni è il primo, diventare la squadra che nessuno vuole affrontare ai prossimi Mondiali deve essere il secondo, contribuire ai cambiamenti per dare un grande futuro ai nostri giovani è il terzo ed il più importante”.

 

 

Il breve periodo: essere competitivi al Sei Nazioni

Come? “Fare alla perfezione due, tre cose“, diceva ad inizio anno O’Shea a proposito degli obiettivi tecnici e tattici degli Azzurri.

La prima, la difesa: imprescindibile e base attorno a cui ogni squadra costruisce i propri successi. Come quello di Firenze contro gli Springboks, in cui forte è stata la mano di Brendan Venter, che ha confermato il proprio impegno con la Nazionale come allenatore della difesa fino alla Rugby World Cup 2019. Un tecnico capace di vincere la Premiership coi Saracens nel 2011 dopo aver finito la stagione regolare con 318 punti subiti in 22 partite (nemmeno 15 a partita, miglior risultato del massimo campionato inglese degli ultimi undici anni). Un tecnico che alla guida dei Sarries ha messo le basi per il sistema difensivo poi portato a compimento con il nome di Wolf Pack su cui il club londinese ha costruito tanti successi. “La più grande influenza su di me l’ha esercita Brendan Venter, probabilmente il miglior allenatore avuto, quello con più passione e trasporto“, raccontava nel 2013 a The Rugby Paper l’attuale defence coach dell’Inghilterra Paul Gustard, che quello stesso ruolo l’aveva ricoperto ai Saracens proprio sotto la direzione tecnica di Venter.

La seconda, il gioco al piede: impossibile nel rugby moderno non poter fare affidamento su un solido e strutturato kicking game, che permette di vendere metà campo e risparmiare le energie fisiche e mentali che diventano decisive una volta entrati in zona rossa. Un rugby che sta tornando ad essere sempre più una partita di scacchi: basta guardare una partita di Munster o dei citati Saracens per capire quanto il piano tattico sia fondamentale per portare a casa una partita.

La terza, il rispetto del piano di gioco: è un punto su cui Conor O’Shea ha insistito tantissimo da subito. Una partita va giocata per tutti gli ottanta minuti e sempre rispettando il piano di gioco. Sarà un caso, ma l’unica volta che è successo è stato a Firenze contro il Sudafrica, incontro gestito in maniera impeccabile dal punto di vista tattico.

 

 

Il medio periodo: diventare la squadra che nessuno vuole affrontare ai prossimi Mondiali

Quante volte Conor O’Shea ha fatto riferimento alla Nazionale italiana degli anni Novanta, aggressiva, rognosa e abrasiva con il pack e che dava filo da torcere a chiunque? Sarà perché contro quell’Italia lo stesso O’Shea ha perso, a Lansdowne Road nel 1997, ma fatto sta che più volte il Commissario Tecnico azzurro ha fatto riferimento quell’Italia. Ecco, quando O’Shea dice di voler “diventare la squadra che nessuno vuole affrontare ai prossimi Mondiali”, il riferimento va proprio lì. Una squadra forte in conquista, aggressiva in difesa, rognosa e scafata quanto basta per farsi rispettare da chiunque. Più cattiva che bella. Una squadra un po’ “alla Venter” (virgolettato nostro), come lo stesso CT ha dichiarato da Roma: “Quando parlo di diventare un avversario difficile da affrontare so che Venter è la persona adatta a rendere ciò possibile”. Ah, giusto per curiosità, a Dublino quel 4 gennaio di vent’anni fa in campo con l’Irlanda c’era anche Mark McCall, che di Venter ha preso il posto alla guida dei Saracens.

 

 

Il lungo periodo: contribuire ai cambiamenti per dare un grande futuro ai nostri giovani

Il compito più difficile è quello che guarda direttamente al futuro non della Nazionale ma del movimento Italia, in particolare per quel che concerne l’Alto Livello. Già perché “contribuire ai cambiamenti per dare un grande futuro ai nostri giovani”, significa né più né meno che fare dell’Italia un posto dove sia naturale e stimolante intraprendere la propria carriera di rugbista professionista. Significa iniziare a lavorare a livello di Accademie e nazionali giovanili (Stephen Aboud è qui per questo), ma anche fare in modo che l’intero ambiente del quotidiano (leggi franchigie) incarni uno spirito di reale professionismo. Il compito più difficile, appunto, ma anche la sfida più stimolante.

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