Anacleto Altigieri, il ricordo corre nelle parole di chi lo ha conosciuto

Momenti di vita e di rugby: Marco Pastonesi raccoglie scatti fotografici verbali per ricordare un gigante buono

COMMENTI DEI LETTORI
  1. vecchio cuore neroverde 9 Gennaio 2016, 15:40

    Ma basta con queste ridicole storie
    Parliamo di cose serie
    Ad esempio dei leoni di Treviso (dove non gioca un trevigiano€

    • Katmandu 9 Gennaio 2016, 18:32

      Iannone è di Bari vecchia?

      • vecchio cuore neroverde 9 Gennaio 2016, 20:46

        perchè gioca?
        del gioco evidentemente abbiamo un concetto diverso

      • vecchio cuore neroverde 9 Gennaio 2016, 20:48

        se non ve la racconta ambi ve la racconto io
        ma meglio lui, perchè in squadra era l’unico, o quasi, a saper tradurre

  2. vecchio cuore neroverde 9 Gennaio 2016, 15:42

    Ambi tra poco vorrà’ raccontare di Anacleto che insegna il romanesco a dandy Haden a Padova prima della sfida scudetto col Petrarca

  3. Giovanni 9 Gennaio 2016, 17:21

    Ricordo in una telecronaca Gianni Clerici dire che una volta il tennis era un gioco. “Poi – aggiunse – divenne sport ed ora è spettacolo”. E’ la sintesi della parabola che, nel corso dei decenni, hanno subito le attività atletiche regolamentate, che usiamo indicare come “sport”. I giochi si son trasformati in sport, grosso modo, nel corso degli anni 60; da divertimento son trasfigurati in intrattenimento (Debord: “La società dello spettacolo”) e quindi in industria (merchandising, tecnologie al servizio delle prestazioni, ecc.). Il rugby è riuscito a compiere una sorta di miracolo, procrastinando di circa vent’anni quel suo status di “dilettantismo”, finchè ha dovuto prender atto che il tempo s’era compiuto anche per esso e non era più possibile preservare quella propria purezza originale, ormai anacronistica. A quel passaggio epocale contribuì anche il rugby italiano, grazie all’escamotage (chiamiamolo imbroglio) delle borse di studio che permisero di portare nello Stivale alcuni fuoriclasse stranieri che, uniti ad una solida base autoctona formatasi nel corso degli anni precedenti e con l’aggiunta degli oriundi, fecero compiere il salto di qualità al nostro movimento verso “l’eta dell’oro” di cui ci si illuse di essere agli inizi. Sarà mica per quello che l’Italia venne premiata con l’ingresso nel 6N? Per aver costretto le Home Unions a guardarsi dentro e prendere atto che un’epoca s’era chiusa ed un’altra stava per cominciare? E’ pur vero, come da più parti sottolineato, che il rugby possiede in sè gli anticorpi che lo preservano (almeno in parte) dai mali che affliggono altri sport professionistici (il rimando al calcio è immediato, ma non dimenticherei il prezzo pagato dal volley alle esigenze-ingerenze televisive o il contraccolpo che sta vivendo il basket che pure conobbe un successo di gran lunga superiore al rugby), ma alcuni di quegli anticorpi appaiono già indeboliti oggi (Armitage che va in metà dileggiando l’avversario, certi atteggiamenti da star mediatica di alcuni giocatori, la sostanziale omertà sul doping, gli isterismi di qualche dirigente, ecc.) ed alla fine non vorrei che si scopra che sia proprio la mancata diffusione del rugby in Italia a preservarne ancora un certo spirito cavalleresco e goliardico. Come che sia, il sistema economico è spietato e non ammette mezze misure: crescere nel professionismo (ed invece siamo ormai al terzo anno consecutivo di stallo) o rientrare faticosamente in quel sistema di dilettantismo virtuoso (alla Argentina) in cui investire tutti i propri mezzi, come avvenne in passato. Impensabile ritenere di poter continuare a barcamenarsi a lungo in questo status indefinito di “nè carne e nè pesce”.
    Io capisco quelli che hanno giocato nel corso degli anni 70 e 80, capisco la loro nostalgia per il senso d’appartenenza e per quello spirito di cameratismo e goliardia che animava loro, i loro compagni di squadra ed i loro avversari. Lo capisco e lo rispetto. Ma poi mi chiedo: non siete stati anche voi con le vostre scelte, la vostra partecipazione, ad aver contribuito nel vostro piccolo a gettare le basi per quella trasformazione epocale che poi si compì e che ha portato, attraverso anche errori e storture, alla situazione attuale del nostro rugby? Il Gavazzi che era giocatore in campo negli anni 80, non è lo stesso Gavazzi oggi presidente della federazione? Ed il Munari che esprime scetticismo nei confronti della convivenza tra domestic dilettantistico e franchigie professionali non è lo stesso Munari che partecipava attivamente al sistema delle borse di studio 25 anni fa? Intendiamoci, non sto mettendo nessuno sul banco degli imputati: sarebbe troppo facile e comodo, ed anche ingrato, perchè ho ben presente che se certi risultati si son raggiunti è anche grazie alle idee ed alle scelte di chi era nella posizione di poterle fare all’epoca. Però non ci si può neanche rifugiare nel passato come se esso sia stato un momento avulso e non collegato in alcun modo al presente, come invece è stato attraverso la concatenazione di eventi che collegano quel passato (30-40 anni fa) con questo presente che abbiamo tutti sotto gli occhi. Ed ho fatto gli esempi più eclatanti (Gavazzi e Munari) ma se ne potrebbero fare tanti altri di ex-giocatori che sono oggi allenatori, dirigenti o federali a tutti i livelli ed in ogni categoria. Chi oggi ha anteposto il proprio interesse personale (ripeto, qualunque sia la carica che occupa ed il livello a cui si trova) ha il dovere d’interrogarsi sul chi era e come si comportava ieri e procedere al paragone col chi è e come si sta comportando oggi. Mentre da coloro che decisero, del tutto legittimanente, di uscire dal mondo del rugby ben vengano le critiche ma che siano sempre motivate da intenti costruttivi; se si vuole combattere le proprie battaglie, è allora il caso di tornare a sporcarsi le mani “dal di dentro”.
    Abbiamo davanti ai nostri occhi il caso dell’Argentina che, a distanza di anni e con numeri differenti, sta provando a ripercorrere un tragitto simile al nostro: prima l’ingresso nell’elite delle nazionali (6N e Rugby Championship), poi l’ingresso nel sistema delle franchigie (Celtic e Superugby). E’ un percorso che parte da una base dilettantistica enormemente diversa, sia per portata che per radicamento, ma che sta cercando comunque una propria via al professionismo. Da questo punto di vista la loro preoccupazione di poter ripetere gli errori italiani è evidentissima ed è confermata dalla volontà di mettere in atto i giusti contrappesi al rischio di prosciugare le fonti, non solo economiche, che alimentano i club e la base tutta. Sarà interessante seguire la loro evoluzione in questo sforzo: a mio modesto avviso, sarebbe opportuno che noi seguissimo attentamente nei prossimi anni quali saranno i risultati e gli eventuali correttivi in corsa a questo loro cammino. Rispetto a loro abbiamo il vantaggio di partire da una base economica più solida, il che non è poco: sta a noi trovare la giusta via per migliorare i risultati, applicando in modo corretto i mezzi di cui disponiamo.
    Mi scuso per non esser stato più sintetico. Buon rugby a tutti.

    • mamo 10 Gennaio 2016, 08:47

      É interessante la tua opinione ma, a mio modesto parere, la tua analisi non tiene conto di un aspetto fondamwntale: le persone.
      Mi spiego: i rugbysti degli anni 70, 80, 90 e 2000 possono aver vissuto questo sport in modo anche diversissimo fra di loro ma c’é una costante, un denominatore comune, che caratterizza la figura del dirigente a prescidere dal periodo in cui é stato rugbysta: la mediocritá.
      Mi guardo bene da generalizzare perché io stesso ho conosciuto dirigenti di spessore (pochi) ma generalmente chi ritiene d’essere all’altezza di decidere, si comandare e dirigere, é quello che mediamente quando giocava era una mezza sega e poi, nella vita reale, é rimasto tale. Gli altri, ahimé, non hanno il tempo di farlo e se si propongono part time vengono bocciati. Rimane l’eccezione degli ex che diventano genitori di rugbysti e che per un breve lasso della loro vita (tempo o no) si riattivano nei propri club.
      Lo sport in Italia é considerato un minus e questa, quella di una dirigenza mediamente mediocre, é la logica conseguenza.
      Io la soluzione non ce l’ho.

      • Giovanni 10 Gennaio 2016, 11:30

        Sulla correlazione stretta “mediocre giocatore-mediocre dirigente” non sarei così sicuro: abbiamo spesso sottolineato come un grande giocatore non diventi necessariamente un grande allenatore, cosa che vale per tutti gli sport. Temo piuttosto che il sistema di relazioni (do ut des) finisca per pesare troppo sulla volontà dirigenziale di mandar via chi non riesca ad ottenere risultati apprezzabili.

        • mamo 10 Gennaio 2016, 14:06

          Hai ragione Giovanni tan’é che avrei voluto specificare in un secondo post che anche i bravi (bravissimi) giocatori che poi nella loro vita non riescono a esser altrettanto acclamati, rischiano di diventare mediocri dirigenti.
          Io poi mi riferisco ai Club medi non ai professionisti dove, a mio avviso, si puó assolutamente prescindere dal fatto che uno sia stato persino un giocatore.
          Sia chiaro che io, per primo, sono stato un mediocre (quanto appasionatissimo) giocatore.

    • Sergio Martin 10 Gennaio 2016, 15:28

      Diciamo tutti a @San, ma anche tu non pettini le bambole… Bravo. Bellissimo comtributo.

      • Giovanni 10 Gennaio 2016, 15:49

        Grazie, ma S(u)an Eminenza è su ben altri livelli…

  4. vecchio cuore neroverde 9 Gennaio 2016, 18:07

    e’ il miglior post letto su questo sito
    l’argentina non è paragonabile allo sfascio del rugby italiano, perchè vive di club, di campanili e di tradizioni

    • Giovanni 9 Gennaio 2016, 18:52

      Paragonabile no, infatti non ho mai ritenuto che noi si debba copiare pedissaquamente i movimenti rugbystici altrui. Però ritengo opportuno osservare come gestiranno la franchigia professionale.

    • sentenza 9 Gennaio 2016, 19:12

      Non è paragonabile, forse, se ha un seguito di pubblico diverso e continuerà ad averlo. L’unico modo per finire diversamente da noi.
      Poi non credo affatto che sia stato il rugby italiano col suo professionismo mascherato (ma solo per gli stranieri, non certo per tutti gli italiani) a costringere o anche solo stimolare gli anglosassoni al passaggio al professionismo. Quella è stata una scelta politica “strategica” loro che se è stata obbligata da qualcosa è sicuramente qualcosa di più grande e “pesante” del rugby italiano di allora (su questo ho le mie teorie). Il rugby italiano ha solo avuto il merito o la fortuna di salire sul treno e trovare il suo posto a tavola. Ed è riuscito così a mangiare a ufo fino ad oggi, in barba a tutti i blabla sulla meritocrazia. E se riuscirà a continuare così sarà sempre solo per l’opportunità “politica” di non ammettere il fallimento, ma di tutto il rugby non solo quello italino. Cioè la lezione è per tutti i maghi del marketing che pensavano di poter diffondere il rugby (o qualsivoglia sport, anche “anaGolo”) pompandolo pubblicitariamente come fosse un detersivo o una merendina.

      • vecchio cuore neroverde 9 Gennaio 2016, 20:47

        veramente gli ufo sono gli altri
        ed in effetti ci si mangiano con appetito

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