“Tanto è acida”. La superata mentalità di una parte dell’Ovalia italiana

Gli All Blacks sono da sempre, nel bene e nel male, un passo davanti a tutti. Noi stiamo a guardare, come la volpe di Esopo

ph. Alessandro Bianchi/Action images

Il rugby cambia e si fa globale, i giocatori diventano testimonial dei marchi più noti, la nazionale più forte muove il carrozzone solo dietro precise garanzie, Ovalia conosce i suoi paesi BRICS e il giro di introiti mosso dall’intero circus si moltiplica di Coppa del Mondo in Coppa del Mondo. Ma tutto questo a che prezzo?

Sono passati ventisette anni dalla prima edizione della Rugby World Cup. Il profitto netto generato da quell’edizione è stato calcolato in circa un milione di sterline; quello dell’edizione 2003 circa sessantacinque volte tanto. Gli spettatori allo stadio di quella prima edizioni sono stati circa 600.000; sedici anni dopo saranno quasi due milioni. Da casa hanno guardato le partite del 1987 poco più di 300.000 persone; nell’edizione 2003, i telespettatori complessivi sono stati circa 3,4 bilioni. Poche cifre, ma significative del modo in cui il rugby è cambiato e sta cambiando.E quando si parla di cambiamenti, c’è una nazionale che è sempre un passo avanti alle altre. La si riconosce facilmente, perché tendono ad essere tutti neri e di stazza medio-grossa.

 

Il pilone inglese Paul Rendall definì gli All Blacks dei “bastardi” quando scoprì che si erano allenati in vista della Coppa del Mondo del 1987. Negli stessi giorni e nello stesso posto, ad Auckland, l’estremo gallese Paul Thorburn per poco non ci rimase secco quando accendendo la TV nella camera dell’hotel vide i giocatori della Nuova Zelanda fare da testimonial pubblicitari (non in qualità di giocatori in quanto amatoriali ma in qualità di liberi professionisti, sai che differenza…). Davvero strano, per dei giocatori che avevano fatto i miracoli per prendersi le ferie dal lavoro per recarsi all’appuntamento con la storia ovale. E che, per giunta ma soprattutto per regola, non potevano essere pagati. Ma piaccia o non piaccia, i tutti neri sono sempre stati un passo avanti, dentro e fuori dal campo, nel bene e nel male (ammesso che ricavare soldi dal proprio essere rugbisti possa essere un male). Che si tratti del modo di lanciare il gioco da fase statica o delle strategie adottate per monetizzare il proprio marchio, quella All Blacks è sempre stata una mentalità vincente e un passo avanti.

In entrambi gli aspetti siamo ancora indietro, ma la sensazione è che noi talvolta si preferisca rimanere rintanati nella propria nicchia rifugiandosi dietro al “tanto è acida” di esopiana memoria. Possiamo continuare a raccontarci che il rugby è bello perché amatoriale e che i mega ingaggi non ci piacciono, che non conta vincere perché l’importante è partecipare (frase che suona bene ad un genitore del minirugby ma meno al responsabile marketing del proprio main sponsor), che il calcio ci ruba i palinsesti e i campi ma che meglio così che come loro che non cantano l’inno, che troppo pochi lo guardano in TV ma se finisce su un canale in chiaro fatto di cibo e aste americane un po’ all’inizio il naso ci puzza. Crescere significa anche abbracciare situazioni nuove, significa anche “sporcarsi” un po’ le mani (metaforicamente parlando), accettare di contaminare la propria originaria purezza. Il calcio deve essere più come il rugby, sosteneva ieri Castrogiovanni dalle pagine di Repubblica, ma forse è  in parte vero anche il contrario, e il rugby All Blacks in parte vi si avvicina di più (non è un caso che nella “world’s 50 most marketable athletes 2014 list” pubblicata da SportPro l’unico atleta sia stato un rugbista, SBW). Con questo non si vuole sostenere che l’italica Ovalia sarà veramente realizzata quando da Singapore scommetteranno sull’Eccellenza. Solamente, capire che l’epoca del rugby nudo e puro è davvero e per sempre finita, e che l’avvento del professionismo prima e dei contratti televisivi poi l’hanno per sempre cambiato.

Di Roberto Avesani

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