Milleduecento maglie per raccontare emozioni e storie di rugby

Nato in sordina, quasi per scherzo, oggi il Museo del Rugby oggi raccoglie migliaia di memorabilia da ogni dove. Di Marco Pastonesi

Ogni maglia una partita, un’azione, una meta. Ogni maglia un giocatore, un uomo, un rugbista. Ogni maglia una storia, un racconto, un libro. Milleduecento maglie. Più o meno. Fino a qualche giorno fa sarebbe stato più preciso. Da qualche giorno non le conta più. Forse perché prima era lui a correre dietro alle maglie, e alle storie, e adesso sono le maglie, e le storie, che corrono dietro a lui.
Lui è Corrado Mattoccia. Quarantanove anni. Alto, elegante, da giacca e cravatta, sempre, o almeno sempre nelle occasioni più importanti, che per lui sono quelle del rugby. Diplomato geometra. Di Rocca Massima, provincia di Latina. Ma poi di Colleferro, che sta al rugby italiano come Rotorua sta al rugby neozelandese, o Pontypridd a quello gallese. Un’oasi di mischie. Un “duty free” di botte. Un’isola del tesoro.

 

La prima maglia rossoblù, del Colleferro, a quindici anni. Terza linea per vocazione, seconda linea per punizione, essendo – per sua stessa ammissione – una testa calda. Serie B quando, di meglio, c’era soltanto la serie A. Finché un incidente d’auto estromette Mattoccia dal campo e allora lui s’intromette nelle stanze, quelle dei consigli regionali della Fir e dal 2006 quella della sede della Red & Blu, di Colleferro, serie A donne. Ma il rugby è un percorso nel cuore, viali o vicoli, piazze o campielli, un posto lo trovi, lo meriti, lo guadagni.
La prima maglia regalata sono state due, quelle di Mauro e Mirco Bergamasco. Invece la prima maglia regalata ufficiale è stata quella di Nanni Raineri. Da lì è nata l’idea di una collezione, che si è allargata al progetto del Museo del rugby. Ufficialmente dal 2008. Nel garage di suo padre. Una dieci, cento… milleduecento. Più o meno.
C’è la prima maglia della nazionale italiana, Spagna-Italia, 1929, e l’ultima, Italia-Galles, 2013. C’è la maglia dei Pumas e quella degli All Blacks. C’è la maglia di Gareth Edwards e quella di Jonah Lomu. C’è la maglia del Prato e quella del Rho. C’è la maglia di “Maci” Battaglini e quella di Martin Castrogiovanni. Quando Mattoccia è andato a vedere Italia-Galles, Sei Nazioni 2013 donne, a Benevento, tre maglie (di Luigi De Joanni) si sono donate al Museo: quella della Selezione delle province argentine (1989), quella del XV della Colonna (De Joanni, unico sudista della storia) e una della Romania (1984). E di “caps”, quelli consegnati agli azzurri prima di Italia-Francia, Sei Nazionai 2013, Mattoccia ne conserva e protegge già sei.

 

Mattoccia racconta che “all’inizio i giocatori pensavano che chiedessi le maglie per rivenderle, invece adesso pensano che le maglie stanno meglio da me che da loro”, spiega che “inseguivo le maglie per convinzione, per testardaggine, poi per piacere, per libidine, ora per passione, per missione”, e sostiene che “non mi sento il presidente del Museo del rugby, ma il custode di storie ovali”.
Come la storia di una maglia che è una maglietta, dell’Italia, quella commemorativa della Coppa del mondo 1987: quando, a quarantott’ore dalla prima partita (quella contro gli All Blacks padroni di casa, e poi del torneo) i giocatori seppero che la Federazione italiana aveva ricevuto una bella cifra dall’International Board, prima chiesero una quota e minacciarono uno sciopero, poi ottennero la maglietta come ricordo eterno. O come la storia di quella maglia del Neath, nera con la croce di Malta, nell’incontro-fantasma contro un club sudafricano ai tempi dell’apartheid.
Adesso il Museo del rugby – in tutto sedicimila memorabilia, dai libri alle cravatte, dagli scudetti ai palloni – si è esteso ad altri due garage in comodato gratuito ma, appena possibile, traslocherà nei locali del secentesco Palazzo Borghese nel confinante comune di Artena. Il rugby mobilita, nobilita, e si nobilita.

 

di Marco Pastonesi

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