Mondiali 2023 in Italia, una lunga battaglia politica. A forma di palla rotonda

Il presidente Gavazzi lancia la candidatura. Ma bisogna costringere il mondo del calcio a scendere a patti

Un paio di settimane fa a dirlo era stato Giancarlo Dondi, membro del board IRB e per 16 anni padre-padrone della FIR. Ieri anche Alfredo Gavazzi, nuovo presidente della Federazione di rugby, ha annunciato di voler portare avanti la candidatura dell’Italia a Paese ospitante per la Coppa del Mondo che si disputerà nel 2023. ”Penso sia giunto il momento opportuno di proporre la nostra candidatura. Per il 2015 forse non eravamo pronti, ma fra 10 anni la Federazione e la Nazionale saranno sicuramente pronte per questa sfida”.
Questa la convinzione del numero uno FIR espressa alla presentazione dei test-match dell’Italia di novembre, occasione nella quale anche il CONI – tramite il Segretario Generale Raffaele Pagnozzi – ha subito fatto sapere che “il comitato olimpico sosterrà la candidatura per ospitare il Mondiale di rugby 2023”.
Tutto bene, o quasi. Perché di fronte a un evento simile – che non può non trovare il plauso di tifosi, appassionati e addetti ai lavori – c’è un “ma” enorme, rappresentato dalle strutture che dovrebbero ospitare le partite. Gli stadi italiani, tranne in rarissime situazioni, sono in una condizione che definire difficile è poco. L’intero mondo del calcio aspettava come una manna l’assegnazione degli Europei per spingere il governo a varare la legge sugli stadi che giace come lettera morta da tempo in Parlamento. Sostanzialmente il mondo della palla tonda chiedeva che fosse lo Stato ad accollarsi il riammodernamento delle strutture. Gli Europei non sono arrivati e gli stadi rimangono quello che sono. Qualcuno (leggi la Juventus) si è mosso è si è costruito uno stadio di proprietà, altri stanno muovendo nella stessa direzione anche se molto lentamente.

 

Perché questo panigirico sul calcio? Perché volenti o nolenti da lì dobbiamo passare se l’Italia vuole davvero organizzare la RWC2023, da quegli stadi. E qui, oltre al problema meramente strutturale, si arriva a uno decisamente politico, ovvero convincere il mondo del pallone a rinunciare – in parte – ai suoi stadi per una cinquantina di giorni tra settembre e ottobre. Un periodo dell’anno in cui partono i campionati e le coppe europee.
Dice: ma in Inghilterra molti degli stadi che ospiteranno la RWC 2015 sono normalmente usati dai club di quello sport, loro una quadra l’hanno trovata. Tutto vero, con alcuni però. Che trovare quell’accordo non è stato comunque semplicissimo, ad esempio. Oppure che quegli stadi sono di proprietà delle stesse società che li utilizzano, cosa che snellisce e velocizza non poco le trattative: un conto è sedersi a un tavolo con il consiglio direttivo di un club, un altro è avere a che fare con giunte che devono poi rendere conto a un consiglio comunale, provinciale o regionale. I tempi sono inevitabilmenti diversi. E che, spiace dirlo, dalle nostre parti non c’è la cultura sportiva e dello sport che invece alberga al di là della Manica.
E poi c’è il vero vulnus: noi speriamo ovviamente di sbagliarci e di essere smentiti, ma le dirigenze delle squadre di calcio italiano non sembrano mediamente “illuminate” a sufficenza per poter mettere da parte per una manciata di settimane i loro interessi anche a fronte di un evento di livello globale (il Mondiale di rugby, lo ricordiamo, è il terzo evento per giro d’affari e di tifosi dopo Olimpiadi e Mondiali di calcio). Purtroppo gli esempi si sprecano in questo senso e il “caso Bologna” è lampante.
Chi potrebbe sparigliare le carte è il CONI, che con una pesante discesa in campo in prima persona potrebbe esercitare non poche pressioni sui vari attori. Ma potrebbe comunque non bastare. Il tempo non manca, il board internazionale dovrebbe assegnare le edizioni della RWC del 2023 e del 2027 non prima del 2017. Ma al di qua delle Alpi bisogna iniziare a lavorare sul fronte politico già nei prossimi mesi. Su quel campo di battaglia non c’è tempo da perdere.

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