Pressione, la parola chiave della finale della Rugby World Cup 2023

L’ultimo atto del Mondiale rivisto in chiave tattica

Faf de Klerk si prepara ad un box kick nella finale della Rugby World Cup 2023 – ph. Miguel MEDINA / AFP

Fino a un po’ di tempo fa, all’inizio di ogni corso per allenatori della Federazione Italiana Rugby, venivano ripetuti i principi fondamentali del gioco del rugby: avanzare, sostenere, continuare ad avanzare. Da qualche anno ai tre principi se n’è aggiunto un quarto: pressare, mettere pressione.

Un elemento cruciale del rugby contemporaneo, esasperato ed estremizzato come sempre succede al livello più alto del gioco. Grazie alla propria capacità di applicare pressione il Sudafrica è riuscito a farsi incoronare campione del mondo per la quarta volta, la seconda consecutiva, al termine di una finale vinta 12-11 contro gli All Blacks.

Nell’atto conclusivo della Rugby World Cup 2023 il Sudafrica ha calciato il 75% del proprio possesso, una cifra superiore a quella di ogni altra gara degli Springboks al mondiale.

Non che la squadra allenata da Jacques Nienaber abbia fatto un uso del gioco al piede superiore alle avversarie nel corso del torneo: prima della finale Nuova Zelanda e Inghilterra erano le due squadre ad aver calciato di gran lunga di più.

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Tuttavia, negli ultimi 80 minuti della Coppa del Mondo l’uso intensivo dei calci ha permesso al Sudafrica di mantenere il più possibile la partita nella metà campo avversaria, come dimostra lo squilibrio tra le percentuali di possesso (61%/39% in favore della Nuova Zelanda, nel concreto 8 minuti in più con la palla in mano) e territorio (53%/47% per gli All Blacks), e di annullare la superiorità nel gioco offensivo dimostrata fino alla gara di finale dagli avversari grazie alla propria ostinata e irreprensibile difesa, che ancora una volta si è dimostrata la migliore del mondo non solo per le capacità individuali dei singoli, ma anche per il funzionamento di un sistema estremizzato, che necessità una esecuzione attenta e febbrile per coprire i pur presenti rischi alla quale si espone.

Da una parte, quindi, c’è voluta una partita tatticamente di altissimo livello nell’utilizzo del gioco al piede da parte dei giocatori in campo deputati a tale compito (Pollard, Willemse, de Klerk), ma anche dei loro gregari (Kolbe), finanche a sopravanzarne gli istinti tecnici. A questa si collega la capacità di far funzionare a puntino il sistema difensivo, in particolare con la rush defence nel gioco al largo già utilizzata contro la Francia (chiamando in causa in particolare le qualità ancora di Kolbe, ma anche di Kriel e Arendse). A completare il triangolo la capacità dei giocatori sudafricani di rallentare il possesso avversario grazie ad una ottima tecnica di placcaggio che consente sempre di mettere in discussione il punto d’incontro: l’immenso lavoro di Duane Vermeulen, Kwagga Smith, Siya Kolisi, Deon Fourie ha costretto gli All Blacks al peggior tempo medio di uscita del pallone dalle ruck, un esagerato 5″05.

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Un esempio della strategia degli Springboks

In questa serie di screenshots torniamo sulla sequenza che ha portato il Sudafrica a segnare il calcio di punizione del 12-3, il massimo vantaggio avuto all’interno della partita. Si tratta di un esempio chiaro e perfettamente riuscito delle intenzioni del Sudafrica in questa partita.

Intorno alla mezz’ora di gioco, gli Springboks beneficiano di una mischia ordinata all’altezza della metà campo, spostata sulla sinistra. Impostano una giocata complessa, ma tutto sommato efficace: Vermeulen si stacca dalla base, Damian de Allende arriva all’altezza per proporsi come penetrante, ma la palla va dietro a Faf de Klerk. Il mediano di mischia corre qualche passa per fissare la difesa e poi gioca ancora dietro la schiena del’accorrente Kriel per Pollard. A sua volta il numero 10 può scegliere fra la corsa con angolo stretto di Willemse e quella arcuata di Kolbe. Sceglie quella del numero 11 che, dopo aver guadagnato molti metri e nei pressi della linea dei 22 metri avversari, con la difesa che finalmente rinviene, prova a imbucare il pallone con il destro per Kurt-Lee Arendse, che non può arrivarci per poco.

Dalla rimessa laterale che ne consegue, a cinque metri dalla linea di meta degli All Blacks, i neozelandesi non possono far altro che liberare mandando il pallone fuori. Sarebbe troppo rischioso consentire un contrattacco agli avversari con le spalle al muro, ben dentro la propria zona rossa.

Cheslin Kolbe, però, ricevendo il calcio di liberazione di Richie Mo’unga, non si accontenta di una rimessa sulla linea dei 10 metri offensivi (situazione di contesa dove peraltro il Sudafrica sta incominciando a soffrire) ma sceglie di giocare velocemente per Damian Willemse.

Il numero 15 degli Springboks arriva corto di qualche metro rispetto alla traversa con il suo drop da distanza siderale, ma ancora una volta gli All Blacks non hanno altra scelta se non calciare via il pallone dalla zona pericolosa. E così fa Beauden Barrett, rispendendo il pallone a metà campo, nell’angolo alla sua sinistra.

La palla torna tra le braccia di Willemse, che stavolta sposta al centro su Pollard. Cheslin Kolbe si è spostato in posizione centrale, sul lato opposto del campo ci sono Jesse Kriel e Pieter-Steph du Toit. L’istinto del Kolbe attaccante formidabile potrebbe essere quello di provare a puntare uno degli avanti della difesa neozelandese e seminare il panico in mezzo al campo.

Tuttavia il primo istinto del giocatore scala in secondo piano. Con una lettura efficace della situazione, Kolbe si accorge che il muro nero si sta componendo, pronto a mettere su la diga con un numero di giocatori anche superiore a quello dei sudafricani pronti ad attaccare. Lo spazio, piuttosto, si trova alle spalle della prima linea di difesa e la pressione degli Springboks è pronta a salire.

Con un calcio morbido e ben calibrato, Kolbe piazza la palla nei 22 metri avversari, trovando il prato a metà strada tra Will Jordan e Mo’unga. Il numero 11 si unisce quindi alla pressione di Kriel e du Toit, che andrà a prendersi l’ala avversaria per uno dei suoi 28 durissimi placcaggi della finale di Rugby World Cup.

Gli All Blacks riusciranno a mantenere il possesso, ma per la terza volta consecutiva in alcune decine di secondi si trovano con la palla in mano nella propria zona rossa, con la necessità di uscirne. E l’unico modo per farlo contro la difesa sudafricana è restituire la palla agli avversari.

Un dilemma che per la Nuova Zelanda non fa in tempo a presentarsi: mentre si prepara l’uscita dai 22 metri, gli avanti avversari si mettono al lavoro. Siya Kolisi va a prendersi Ardie Savea portandolo indietro, mentre Franco Mostert mette alla prova la tenuta dei due sostegni. Aaron Smith deve muovere subito il pallone sulla unit successiva, dove Duane Vermeulen e Steven Kitshoff battono Shannon Frizell e Ethan de Groot, ottenendo un tenuto che frutterà altri 3 punti grazie al piede preciso di Handre Pollard.

Incrollabile, il Sudafrica ha continuato a sfruttare i propri possessi per rimettere il pallone nelle mani degli All Blacks, ma costringendoli ogni volta a partire da lontano, dove la difesa sudafricana ha continuato a mantenere inviolata la propria area di meta per quasi tutto l’incontro. Il tutto con una gran varietà di utilizzo del gioco al piede, quasi sempre per tenere il pallone in campo, con grubber, up and unders, crossfield bombs per contendere il possesso in aria e continuare, ancora una volta, a mettere pressione.

Una strategia che è stata fondamentale proprio nei minuti conclusivi, quando gli All Blacks sembravano avere più energie degli avversari e sul punto di sferrare il colpo decisivo della finale. Dall’errore dalla piazzola di Mo’unga dopo la meta di Barrett la Nuova Zelanda sembrava in grado di sorpassare nel punteggio, ma il Sudafrica è riuscito a tenerla fuori dalle zone più pericolose del campo per tutti gli ultimi 20 minuti di gara, ad eccezion fatta del piazzato dalla distanza provato da Jordie Barrett.

È il rugby, bellezza

La finale della Rugby World Cup 2023 è stata un confronto eccezionale che ha portato sul campo, malgrado condizioni atmosferiche non certo ideali per il gioco, quello che è il rugby contemporeaneo giocato al massimo livello possibile.

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Una conclusione degna di un torneo bellissimo e una sintesi di quello che richiede la palla ovale: potenza fisica e atletismo fuori dagli standard, abilità tecniche a tutto tondo, capacità critica di leggere tatticamente le situazioni, strategia progettata a priori da giocatori e staff, fortezza mentale per riuscire a performare al massimo livello in un contesto di pressione che arriva dal campo e fuori da esso.

In questo contesto la pressione, intesa come una azione insistente sull’altrui volontà (dizionario Oxford Languages), è diventata un elemento di importanza fondamentale nel successo di una squadra, più ancora, ad esempio, del possesso della palla.

Le squadre che calciano di più e calciano meglio, le squadre che difendono meglio sono quelle che vincono, imponendo la loro pressione sugli avversari. Questo, d’altra parte, non è necessariamente in contrapposizione con un gioco alla mano propositivo, fatto di belle azioni e mete spettacolari. Lo stesso Sudafrica lo ha dimostrato nel corso degli ultimi 2 anni, così come la Francia e la Nuova Zelanda, due squadre che calciano molto, mettono pressione agli avversari senza il possesso, e sono poi capaci di far alzare in piedi tutto lo stadio con azioni ad alto tasso di spettacolo.

Questo è il rugby di oggi. Vario, complesso, sfaccettato. Nessun altro gioco, nessun altro sport è così, ed è questo suo essere intricato a renderlo il più bello del mondo.

Lorenzo Calamai

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