Salvate il soldato Antoni

Un mese di tour, otto incontri, almeno venticinque defezioni. E un estremo sconosciuto ai più. Quando Johnstone provò a tenersi salda la panchina azzurra

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Salvate il soldato Antoni ph. Sebastiano Pessina

L’Anonima Piloni vi racconta del tour azzurro del 2001 nell’emisfero australe. Duro, affrontato da una selezione raffazzonata e completato tra gli altri da un giocatore che rimarrà nella storia ovale italiana come uno dei suoi più grandi carneadi.

Quando Brad Johnstone si avvicinava ad un microfono nessuno poteva dirsi veramente al sicuro. Mai stato diplomatico, l’ex pilone degli All Blacks, né in campo né da allenatore.

La Federazione Italiana è andata a prenderlo in uno dei momenti più bui della nostra storia recente, ossia quando la Coppa del Mondo del 1999 era ancora in corso. In corso per gli altri, non certo per noi: due sconfitte pesantissime contro Inghilterra e All Blacks, un’altra amarissima inferta da Tonga, squadra volenterosa ma che quella generazione azzurra, in altri momenti storici, avrebbe messo sotto senza problemi. E un logorio intestino mica da ridere, che credevamo di aver risolto con il demansionamento di Georges Coste ma che non riusciremo a sanare così facilmente.

Sugli altri campi, invece, le Fiji di Johnstone volano. Mettono sotto per lunghi tratti anche la Francia nel match che di fatto decide gli accoppiamenti per la fase ad eliminazione. Poi però sale in cattedra Paddy O’Brien, che quel giorno ridisegnerà il concetto di “giornataccia”, regalando ai galletti una meta e un futuro ovale più morbido.

La Federazione vede in Johnstone l’allenatore giusto al momento giusto: tosto, diretto, in grado nei loro piani di far tornare la scintilla negli occhi degli azzurri, scintilla affievolitasi ormai da tempo. Alterna allenamenti duri ad allenamenti massacranti (Tirrenia rimarrà impressa negli incubi di tanti azzurri dell’epoca), al motto di “in partita sarà tutto più semplice”.

I risultati sembrano arrivare subito: alla vigilia del Sei Nazioni battiamo abbastanza comodamente la Georgia – unico match di collaudo di quella Nazionale prima del Debutto con la D maiuscola – poi trionfiamo con la Scozia il 5 febbraio.
Poi più nulla.

Contro Galles, Irlanda e Inghilterra non siamo mai veramente della partita, contro la Francia ci mettiamo l’orgoglio e segniamo quattro mete a Parigi, ma non basta per evitare la sconfitta. Johnstone, microfono alla mano, è una sentenza: “l’Italia ha dieci, massimo una dozzina di giocatori di livello internazionale”.

Non è un concetto fuori dal mondo: la generazione di Coste a livello anagrafico sta arrivano pian piano al capolinea, capitan Giovanelli ha annunciato il suo addio all’azzurro dopo la vittoria contro la Scozia per un infortunio alla retina, i giovani che stanno arrivando hanno bisogno di carburare.

Il problema è che le scarse doti diplomatiche del neozelandese si ripercuotono anche sulla dozzina di cui sopra. Prendete Alessandro Troncon, per esempio. Viene convocato per il tour azzurro nel Pacifico in programma per giugno, ma declina perché negli stessi giorni il suo Montferrand si gioca il titolo transalpino. Johnstone è irremovibile “Se rinunci, rinunci per sempre all’azzurro”.

Giancarlo Dondi, Presidente della Federazione, dà man forte al ct, Troncon dice addio alla maglia dell’Italia. Addio che si trasformerà in un arrivederci, quando a novembre verrà richiamato in fretta e furia dopo una disastrosa sconfitta contro il Canada a Rovigo.
Il Tour tra Samoa e Fiji non va bene, come non va benissimo nemmeno il novembre ovale. E non miglioriamo di certo ad inizio 2001, visto che nel famigerato match di Twickenham entriamo nella storia del torneo dalla parte sbagliata.

Certo, miglioriamo gli scarti contro le altre, rischiamo di espugnare Murrayfield nel giorno della grande meta coast to coast di Mauro Bergamasco, ma tutto questo non indora la pillola a sufficienza.

E allora che si fa? Organizziamo un tour nell’Emisfero Sud. E se nel 2000 ci eravamo limitati a rimanere nel Pacifico, nel 2001 esageriamo: un mese e otto incontri tra Namibia, Sudafrica, Uruguay e Argentina.  Se vi viene un termine tra il “massacrante” e il “disumano” scrivetemelo pure, io non lo trovo.

Si contano almeno venticinque rinunce tra gli azzurri, con Johnstone che reclama visite mediche di controllo e punizioni esemplari per chi verrà beccato a fare il furbo. Dondi gli dà ancora man forte, ma in seno alla Federazione più di qualcuno vorrebbe guardarsi intorno.

Non mancheranno momenti memorabili, alcuni degni di una commedia dell’assurdo. Uno su tutti: mentre Dondi continua a supportare il ct neozelandese, qualcuno in Federazione fa partire un fax con destinatario John Hart, ex commissario tecnico degli All Blacks. Hart in quel momento è in ferie con il suo migliore amico e le rispettive famiglie.

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Il migliore amico si chiama Brad Johnstone e no, non si tratta di un omonimo.
La Nazionale Italiana che parte per il tour è giocoforza raffazzonata. Perché è vero, gli azzurri di livello internazionale sono pochi. Molti di questi sono avanti con gli anni, altri si stanno ritirando.

I fratelli Cuttitta, per esempio. Marcello ha rinunciato alla Nazionale alla vigilia del Sei Nazioni, Massimo era in campo al Flaminio nel giorno del trionfo con la Scozia, ma nell’estate del 2000 hanno entrambi di fatto dato un taglio col rugby internazionale accettando un ingaggio dall’Identicar Bologna, ambiziosa squadra di serie A2 (l’attuale serie A).

I bolognesi saranno promossi nella massima serie, ma a maggio del 2001 viene organizzato il match di addio al professionismo dei due. Si gioca ad Alghero. Da una parte una selezione di italiani guidata da Marco Bollesan, dall’altra una selezione di giocatori stranieri passati per lo Stivale (tra gli altri Campese, Stead, Tamati) allenata da Johnstone.

Il match avrebbe dovuto essere l’antipasto dello scontro tra le Zebre di Bollesan e i Barbarians, ma una serie di condizioni dettate dalla Federazione – non ultima, la richiesta di schierare una squadra tutta italiana, cosa fuori contesto nella storia delle Zebre – provocherà l’annullamento della partita e una discreta figuraccia internazionale.
Johnstone, in questo contesto, dovrebbe limitarsi a fare due parole con i giocatori, schierare una formazione discreta e bere un po’ di birre nel terzo tempo. Rimane però sorpreso dal suo estremo di riserva, tesserato con la squadra di casa.

È un sudafricano di chiare origini italiane che ha giocato a Stellenbosch e che vive in Sardegna solo da qualche mese. Gioca un tempo, ma per il neozelandese è più che sufficiente: Giovanni “John” Antoni, estremo dell’Alghero allora in serie B, sarebbe stato l’estremo azzurro per il tour dell’emisfero sud.

Oh, in fin dei conti gli era andata bene con Marco Rivaro, vuoi che la storia non si possa ripetere con lui?

No, non si ripeterà.

Guadagnerà due caps da titolare contro Namibia e Springboks. È dotato di una buona velocità di base, ma a livello tattico e tecnico è un corpo estraneo anche in assenza di quasi trenta azzurri. Un infortunio lo metterà fuori causa per gli incontri in Sudamerica, poi sparirà dai radar della Nazionale. Giocherà ancora ad Alghero, poi a Roma, nelle categorie minori italiane.

Il tour, nel frattempo, non va come sperato. Qualcuno in Federazione puntava senza mezzi termini a vincere sei partite su otto: le quattro non valevoli per il cap (contro una selezione namibiana, contro i Barbarians sudafricani, contro l’Uruguay A e contro i Pumas A) e i due test-match contro namibiani e uruguagi.

In Namibia partiamo bene, battendo una mediocre selezione locale e i Welwitschias, in una partita che rimarrà nelle statistiche più che altro per il debutto in azzurro di Marco Bortolami. Poi però cominciano i dolori: contro ogni (molto approssimativa) previsione i Barbarians ci massacrano, mentre contro gli Springboks (che fanno debuttare un certo Viktor Matfield) teniamo per un tempo, prima di soccombere come da pronostico.

Il viaggio è lungo e massacrante almeno quanto le partite. Gli effetti si vedono in Sudamerica: soffriamo tantissimo contro la seconda squadra uruguagia e battiamo i Teros nell’acquitrino di Montevideo, ma i due test argentini ci vedono arrivare con fiato corto e tanti cerotti: l’Argentina A ci rifila 62 punti, e contro i Pumas non andrà molto meglio.

Avrebbe dovuto essere l’estate della riscossa, per Johnstone, sarà l’inizio della fine: in Federazione si torna ad alimentare il fuoco sotto la graticola del neozelandese. La pista più calda sembra quella francese: Christian Lanta infatti, ex allenatore della Benetton, sarebbe pronto a salire sull’aereo e sbarcare a Roma.

Un infuocato Consiglio Federale rinnoverà la fiducia all’ex All Black, ma gli verrà affiancato in qualità di general manager John Kirwan.

Non durerà molto la convivenza: Johnstone verrà esonerato al termine dell’ennesimo Sei Nazioni senza vittorie. Verrà ricordato come il commissario tecnico del trionfo al debutto del Sei Nazioni, ma anche come un allenatore troppo duro e troppo poco incline ai compromessi per gestire un gruppo in pieno ricambio generazionale e alle prese con tour che, quantomeno per quel che riguarda quel tipo di tempistiche, si riveleranno sempre più anacronistici.

Un allenatore troppo rigido, diviso tra esclusioni illustri e carte disperatamente esilaranti, come quella firmata Giovanni Antoni, che resterà uno dei simboli di quell’Italia ovale che ha provato tutte le strade dell’improvvisazione, dimenticandosi di fermarsi per ricostruirsi.

Ricordateveli, quegli anni.

E ricordatevi di Antoni, ovunque sia finito.

Cristian Lovisetto – Anonima Piloni

 

Tutte le precedenti puntate di Anonima Piloni le trovate qui.

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