Mino Milani e Tommy River, dal Kentucky con una palla ovale

Marco Pastonesi ci racconta il fumettista e scrittore pavese, presidente emerito del Milòld Rugby Club Pavia

ph. Sarah Williams/Action Images

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Una mattina, d’inverno, con il freddo. Al Giuriati, quello vecchio, c’era solo quello. Il campo, una distesa di fango, con qualche chiazza di neve. In maglia nera, il fascismo era finito da poco, qualcosa ne era ancora rimasto. Contro l’Amatori Milano, che non era più quello degli anni d’oro, ma era pur sempre una potenza. Finì 60-3, per l’Amatori, il Cus Pavia era soltanto uno sparring-partner da allenamento. Ma lui ne fu felice, più che per il risultato, per la sopravvivenza. E per la mano nei capelli che affettuosamente gli passò, alla fine della partita, uno dei giganti dell’Amatori. Proprio quello che, durante il match, gli era volato addosso, placcandolo, soffocandolo, seppellendolo, l’unica volta in cui aveva avuto il pallone fra le mani ed era istintivamente corso verso la meta dei milanesi.

 

Mino Milani è il papà di Tommy River, un cowboy del Kentucky, che da ragazzo aveva lavorato nel ranch del padre, che aveva maturato idee chiare sulla giustizia e sui doveri, e che affrontava combatteva battaglie buone, anche se concluse con sconfitte. Quando lasciò il suo Tommy sospeso fra la vita e la morte, Milani pensava di potersi dedicare ad altri figli, ad altri eroi, ad altre storie. Fu invece richiamato al lavoro, al suo lavoro di scrittore: e Tommy tornò a cavalcare nel vecchio West. “Tommy River e il Tuerto”, “Tommy River e lo Scozzese”, “Tommy River sulla via del Nord”, “Tommy River e la lunga pista”, fino a “Tommy River, addio”, stavolta sconfitto non in una sfida avventurosa, ma dall’invadenza industriale. Per sempre. Poi sarebbero venuti al mondo Sir Crispino e Gianni Babbeo, Guerrino il meschino e Aka Or, Lord Shark e Molly Manderling: fumetti, romanzi, racconti, storie, saggi. Un’officina di personaggi, un emporio di fantasie, una fabbrica di parole.

 

Va verso i novant’anni, Milani. Abita a Pavia, scrive, legge, inventa, fantastica, ricorda, narra. E il rugby continua ad accompagnarlo. A vederlo adesso, non si direbbe che giocasse pilone, in una prima linea che, nella musica dei cognomi, non sembrava così agguerrita: Caramella Borgarelli Milani. Più duro l’allenatore: Testoni. “Ero felice di giocare. E nel gioco, come nella vita, ognuno fa quello che può – dice Milani -. Ero uno degli ultimi arrivati, sapevo poco. Ai primi degli anni Cinquanta non c’era molta memoria del rugby e dei rugbisti di un tempo. La guerra aveva cancellato un sacco di cose; però ogni tanto, ai bordi del campo arrivava uno sconosciuto (che ci sembrava vecchio, ma che avrà avuto al massimo dieci anni più di noi), e stava, interessato, a vederci giocare, e magari gettava qualche grido, o di incoraggiamento o di entusiasmo o di deplorazione. Alla fine, in genere, si presentava; e noi tutti felici e pieni di rispetto ci mettevamo attorno ad ascoltarlo, come avremmo fatto per un reduce di una guerra del Risorgimento”.

 

 

Del suo rugby, Mino Milani giura di essere stato aiutato da “questo sport felicemente duro, rude, puro, non cattivo, che mi ha reso meno ‘signorino’, cancellandomi malinconia e paura”, rammenta di come, giocando, si è rotto un dito, “l’indice della mano sinistra, e mi fa male anche adesso quando il tempo sta per cambiare”, e spiega di come “allora si pensava meno al futuro, qualcosa – ci dicevamo – faremo, e avevamo ragione, è sempre il futuro che decide per noi”. Ma i veri amori non si dimenticano mai, tant’è che Milani è il presidente emerito del Milòld Rugby Club Pavia, una squadra di stagionati, datati e disincantati appassionati del pallone ovale e dei suoi magici riti e valori. E al libro della squadra, “Un gruppo di gentlemen con i pantaloni corti e i calzettoni a strisce”, ha regalato l’introduzione: “Per gli allenamenti si andava, certi pomeriggi, in Borgobasso, dove appena dietro le case c’era un campetto di calcio, immagino che non ci sia più; Testoni non sempre poteva venire, e quando non c’era, non c’era nemmeno il minimo metodo”, “Ricordo quell’osso appuntito che spingeva contro la pelle, quasi cercando di uscirne: era la clavicola spezzata di uno studente alle prime armi”, “Io portavo la maglia numero 13, mi andava benissimo; e quando mi diedero non so perché la numero 11, mi feci abbastanza male a un ginocchio, mi pare contro il Venezia. E poi dicono dei numeri”, “A vederci non c’era nessuno; faceva un po’ impressione la gradinata del Campo deserta, senza nemmeno un’ombra. Ma a tanti anni di distanza, ricordo benissimo che quel vuoto non ci sembrava beffardo, niente affatto: rispettoso, invece”.
Ma sì. Tommy River era un po’ rugbista. E i rugbisti sono tutti un po’ Tommy River.

 

di Marco Pastonesi

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