Presente e futuro del professionismo, le sfide del rugby italiano: intervista a Matteo Barbini

Post carriera, permit player e tutele. Facciamo il punto con il Presidente di GIRA

nazionale rugby

ph. Sebastiano Pessina

Nel maggio 2016 GIRA – Giocatori d’Italia Rugby Associati – ha svolto le elezioni per il Board e per il collegio dei Garanti dell’Associazione. Un momento importante, dopo quanto accaduto nel pre Mondiale a Villabassa, e che ha visto l’ingresso di nuovi e giovani giocatori nell’associazione. Da allora l’attività non si è fermata, tra rapporti internazionali, rapporti con la Federazione e situazioni difficili come quella che stanno vivendo le Zebre. Abbiamo incontrato il Presidente Matteo Barbini per fare il punto su dove GIRA è arrivata, dove vorrebbe arrivare e cosa le serve per riuscirci.

 

 

Il rapporto con l’IRPA e il quadro generale

 

Quali sono i vostri rapporti con l’International Rugby Players Association e come si strutturano?

Come GIRA siamo ufficialmente parte integrante della IRPA dal 2013, dopo solo un anno dalla nostra nascita. Abbiamo lavorato sin da subito per la creazione di questo rapporto, attraverso il fondamentale aiuto dell’IRPA, perché riteniamo fondamentale avere l’opportunità di confrontarci con le altre associazioni mondiali. Gli incontri avvengono attraverso riunioni con cadenza annuale per l’Emisfero Nord e biennale collettivo con l’Emisfero Sud, oltre ad un flusso di informazioni continuo per aggiornamenti sullo stato delle attività.
IRPA in questo senso rappresenta il legame tra le diverse realtà e strumento di supporto per la creazione di nuove Associazioni Giocatori, come le ultime nate (Pacific Island e Giappone) o le future (Scozia).

 

Perché sono nate le associazioni dei giocatori e qual è la principale sfida?

L’esigenza forte è stata quella della tutela della salute del giocatore, intesa sia dal punto di vista fisico che mentale. Se il primo caso è più immediato, la copertura assicurativa, il secondo resta in Italia, ma non solo, ancora un’area grigia. Salute mentale significa capire se un giocatore è sereno, se è contento di ciò che sta facendo, se il post carriera è motivo di ansie e preoccupazione: e i test fatti attraverso l’IRPA in diversi paesi (compreso l’Italia e siamo stati la seconda nazione come numero di partecipanti) hanno restituito un panorama psicologico che direi sconcertante. I giocatori sono “grandi e grossi”, ma sono prima di tutto essere umani. Tutelare la salute mentale significa mettere a disposizione risorse tra le quali certamente mental coach e consulenti, che aiutino a risolvere le problematiche degli atleti affinché siano sereni. Anche perché un atleta sereno performa meglio, questo è indiscutibile. “Better men, better players” come dicono i nostri amici australiani.

 

Rispetto alle controparti estere a che punto siamo?

GIRA è nata nel 2012. Nei primi anni della nostra attività abbiamo agito su quelle che rappresentavano delle priorità, vuoi delle emergenze, come le tutele contrattuali e assicurative. Il confronto con le controparti estere ci dà la possibilità di capire su cosa agire e come destinare le risorse evitando sprechi: al momento la priorità è quella di strutturarci per poter investire nell’immediato in tutti i servizi necessari agli atleti.
Le maggiori difficoltà per iniziare questo processo sono dunque di tipo economico, perché per seguire quotidianamente le diverse attività servono persone a tempo pieno: sarebbe un grave errore strategico aprire tanti cantieri senza avere la possibilità di seguirli.
Ma non si pensi che servano un’infinità di anni ed enormi risorse: in Irlanda fino ad una decina di anni fa non c’era una simile associazione, oggi è radicata ed integrata al sistema e rappresenta un riferimento nel panorama delle Associazioni Giocatori.

 

Un’associazione strutturata quanto può aiutare il movimento?

Moltissimo, e l’abbiamo imparato studiando le nostre controparti angolsassoni. Chiaramente oggi la carriera del rugbista professionista (e aggiungo non solo in questo sport) non è ritenuta in Italia un obiettivo professionale solido e su cui poter costruire la propria vita. Certo, è un problema in generale di tutto lo sport italiano, dovuto soprattutto all’errato rapporto col mondo scolastico che è visto in opposizione e secondo il quale in Italia lo sport è tempo sottratto allo studio. Vi è un mancato passaggio diretto dal rugby amatoriale/giovanile (non serve ricordare l’importanza del nostro sport come fondamentale veicolo educativo e formativo attraverso gli aspetti integrativi del gioco, ossia valori, amicizie, salute…che conosciamo tutti ed è fondamentale promuovere e mantenere saldi) al rugby professionale: questo provoca una perdita enorme di giocatori talentuosi che mollano a 18-20 anni per dedicarsi ad altro.
Come si può far sì che la carriera ovale sia vista come opportunità? Dimostrando che dopo di essa il viaggio continua, che c’è una struttura che accompagna l’atleta aiutandolo a formarsi ed inserirsi in un nuovo ambito professionale adeguato alle sue capacità ed interessi, iniziando a formarlo non a 35 anni, ma nei dieci anni precedenti per arrivare pronto.

 

 

 

I rapporti con la Federazione e il professionismo in Italia

 

Dopo quanto accaduto a Villabassa prima del Mondiale, come sono proseguiti i rapporti con la Federazione?

Se non avessimo nulla da dire, significherebbe esser parte di un movimento in cui tutto è perfetto, ma i risultati ed alcune vicende di attualità dimostrano invece che non è questo il caso. Il nostro intento è di confrontarci in modo propositivo per comprendere e comunicare le rispettive esigenze, in modo da anticipare i possibili problemi ed affrontarli nelle modalità e nelle sedi opportune. Se cresciamo noi cresce la Federazione, e viceversa.

 

Certa stampa aveva bollato quelle trattative come una spiccia “battaglia per il grano”, ma sul tavolo c’era in realtà ben altro. C’è il rischio di essere percepiti come antagonisti?

E’ chiaro che GIRA poteva e può essere vista come antagonista, ma ricordiamoci che è stata creata dai giocatori stessi e continua ad essere supportata da tutti i nostri atleti di alto livello, inclusi tutti ragazzi che giocano all’estero e che toccano con mano i vantaggi di modelli associativi che funzionano.
In particolare i nostri associati senior, come Parisse, Ghiraldini, Cittadini, Gori, Biagi sono ben consapevoli dell’importanza di dar vita ad una struttura che cammini con le proprie gambe, a prescindere da chi ne farà parte, e di cui potranno beneficiare le generazioni future. Dobbiamo essere consapevoli che il rugby oggi è uno sport professionistico e in questo esiste forse una discrasia. La nostra Federazione ha una profonda storia e tradizione, ma di fatto è entrata nell’élite ovale con l’ingresso nel Sei Nazioni. Certe esigenze prima non esistevano, oggi invece c’è tanto lavoro da fare.

 

Si è parlato anche di assicurazioni, per esempio…

E’ un punto di confronto su cui si è lavorato bene e insieme per dare ai giocatori il miglior prodotto possibile. Il tema è ovviamente molto complesso: nel rugby iper fisico gli infortuni sono all’ordine del giorno, incluso quelli fine carriera. Statistiche assicurative danno incrementi a doppia cifra su infortuni di fine carriera, e incremento esponenziale di infortuni da concussion. Le spese mediche e tutto ciò che impatta sul contratto assicurativo è cresciuto a dismisura, e ci sono modifiche e aggiustamenti che vanno fatti: non si tratta solo di assicurare un giocatore, ma farlo in un modo tale che si senta sicuro e tutelato. Crescono velocità e impatto, e di conseguenza numero ed incidenza di infortuni. Vero che i giocatori sono fisicamente più preparati, ma rimane il fatto che vent’anni fa un pilone da 120kg tendenzialmente non era certo famoso per lo sprint sui primi 10 metri, oggi quel limite non esiste più. Ma è una cosa comune a tutti gli sport: pensa che anche nel golf la preparazione fisica è aumentata in modo deciso… da Tiger Woods in poi gli atleti performanti sono tutti fisicamente e mentalmente incredibili. E tutto ciò deve essere tutelato.

 

Un tema, quello della tutela, che interessa anche tutti i giocatori di Eccellenza.

A maggior ragione deve interessare i giocatori di Eccellenza, che deve diventare un’ “Eccellenza di servizi”. E’ il campionato che esprime il legame con il territorio, l’appartenenza al club, valori imprescindibili per giocare il nostro sport, oltre a rappresentare sempre di più una piattaforma di sviluppo e lancio degli atleti che approderanno a livelli più alti.

 

A proposito di Nazionale, da ex giocatore internazionale come valuti l’arrivo di Conor e cosa percepisci sentendo i ragazzi?

E’ un arrivo che mette entusiasmo, e non solo di Conor, parlo dello staff al completo. Il clima è alto ed il cambio di rotta tangibile. Incontrare i ragazzi e sentire che i mesi di lavoro con il nuovo staff tecnico sono stati fantastici e che il loro impegno è massimo, da Presidente GIRA mi riempie di orgoglio. Però serve una premessa fondamentale: che a O’Shea sia data carta bianca. Non ultimo… affrontare un’Inghilterra con strategia innovativa sì, ma espressa alla perfezione, mi ha veramente colpito e trasmesso ancora più energia. E  mi ha permesso di mandare al presidente dell’RPA la classica frase. I am not your Coach… Cose che non hanno prezzo!

 

O’Shea arriva da un campionato, la Premiership, in cui la Rugby Players’ Association è forte, strutturata e con molti fondi. Assieme vi siete incontrati?

Sì, dopo la finestra di novembre. E’ fondamentale avere un rapporto stretto perché come detto precedentemente, un giocatore sereno è un giocatore performante. Non dimentichiamoci però che noi rappresentiamo i giocatori e cerchiamo di tutelarne i diritti, per tutto il resto, carta bianca e fiducia nelle persone incaricate. Certamente vi saranno suggerimenti che possiamo portare e punti di confronto, ma l’obiettivo è la crescita dei giocatori che rappresentiamo e di riflesso dell’intero movimento.

 

Uno dei problemi del nostro rugby sono le franchigie che non vincono. E anche per quanto riguarda i temi cari a GIRA, alle Zebre c’è una situazione davvero difficile al momento…

I giocatori professionisti devono essere gestiti da professionisti, da ogni punto di vista: tecnico, mentale, atletico e aziendale. Abbiamo seguito con molta attenzione la vicenda Manici, così come stiamo monitorando da vicino quanto sta accadendo in generale a Parma. C’è molta attenzione sulla gestione di una situazione di emergenza per arrivare al termine del campionato ma quello che spaventa di più i ragazzi è il dopo.
La differenza vera la fa la qualità del lavoro quotidiano ed è in questo senso che si deve ragionare per creare un contesto di serenità che permetta ai giocatori di performare al meglio, e quindi esprimere tutto il loro potenziale esplorando i propri limiti, sia nel club che poi con la maglia azzurra.

 

 

 

Il fine carriera: tra problemi presenti e possibilità future

 

“Il post carriera rimane ancora il nostro tema principale. Un giocatore per essere tranquillo deve avere una certezza economica contrattuale ed avere opportunità reali per quando smetterà di giocare. Che sia per scelta o per un brutto infortunio”

 

” E’ uno di quei cantieri in stand by di cui parlavo prima, che sarà aperto quando avremo le risorse a disposizione. Nel frattempo, specialmente nei primi anni, l’attenzione è stata rivolta alla creazione di maggiore consapevolezza nei ragazzi riguardo ai temi loro più vicini: contrattualistica, assicurazioni, previdenza.

In seguito, grazie ad una collaborazione con l’AIC (Associazione Italiana Calciatori) abbiamo avuto la possibilità di partecipare con alcuni nostri giocatori per tre anni consecutivi al Corso di formazione “Ancora in Carriera” del quale i ragazzi sono stati entusiasti per la quantità e la qualità dei contenuti proposti.

Istituire un programma sul post carriera rappresenterà la nostra più grande sfida. E’ un tema sempre più sensibile: non è un caso che anche il CONI abbia dato vita al programma “La nuova stagione” “.

 

Quanto siamo indietro da questo punto di vista rispetto ai nostri competitor mondiali?

Il Player Develpoment Program è al primo posto nelle agende delle Associazioni Estere. Le differenze che vediamo in campo, sono le stesse che si notano anche in aspetti corollari ma non meno importanti del gioco. E non è un caso che le due squadre che hanno avuto la crescita maggiore negli ultimi anni in termini di risultati sportivi, Inghilterra e Irlanda, rappresentano i due movimenti che hanno avuto i maggiori risultati con le rispettive Associazioni dei giocatori. Il post carriera in quei casi è visto e curato in modo completamente diverso e professionale, in campo ci confrontiamo con squadre che sono molto più avanti di noi da questo punto di vista. Il ritorno di Sexton a Leinster è anche frutto delle possibilità che gli sono state offerte per la sua riconversione post rugby giocato: un modo diverso per competere con le cifre inarrivabili, anche per la Federazione Irlandese, del rugby francese.

 

Da ex giocatore internazionale e capitano del Petrarca, cosa ti ha lasciato il rugby di alto livello che può essere spendibile in un altro campo professionale?

Chi ha giocato a rugby ad un certo livello ha sviluppato delle doti e competenze peculiari e spesso uniche. Giri il mondo, impari più lingue, ti interfacci con persone diverse, provenienti da culture diverse e che cerchi di capire. Insomma, non cose immediate e che si imparano facilmente. In aggiunta un capitano (o leader di reparto), per esempio, impara a gestire un gruppo, a stimolarlo in base ai caratteri diversi delle persone, a rapportarsi con allenatori e arbitri e viene spesso coinvolto negli incontri con Sponsor ed Enti pubblici. E’ chiaro che serve una struttura che incanali tutte queste competenze, che le sviluppi nel dopo carriera trasformandole in opportunità professionali concrete.

 

Ci sono novità in cantiere?

A brevissimo prenderà vita un progetto con uno dei maggiori gruppi assicurativi nazionali, per mettere a disposizione dei giocatori la possibilità di allocare una parte delle proprie disponibilità per piccoli investimenti. Un piccolo plafond da investire, una sorta di TFR, che rappresenta comunque una tutela che vogliamo dare ai giocatori. Come ben sappiamo il rugby non è formalmente uno sport professionistico, ciò non toglie che si possano attivare dei servizi che lo possano avvicinare il più possibile a quello status. Cose fattibili ed attuabili, senza aspettare che cambino le normative.

 

Per alcuni ex giocatori, il post carriera è significato un ruolo federale, anche di tipo non tecnico. E la sensazione è che ciò abbia in alcuni casi bloccato il processo di professionalizzazione che l’ingresso nel Sei Nazioni imponeva. Siamo progrediti in campo, ma fuori la gestione era ancora troppo amatoriale.

Chi ha vissuto il rugby ad un certo livello ha un cuore, un interesse ed una passione che non possono non essere valorizzati e coinvolti. Sarebbe uno spreco incredibile. Ma le persone vanno formate. Se hai avuto una carriera di club e internazionale, se hai dato e ricevuto esperienze fondamentali, se hai contribuito alla crescita del rugby italiano, è giusto che la Federazione punti su di te per crescere ancora fuori dal campo. Ma è necessario dare un’ulteriore formazione: può essere un Master, un tutoraggio affiancato da un Manager o da un formatore…E’ fondamentale che le persone restino nell’ambiente che ha rappresentato la loro professione per i primi venti anni di vita lavorativa, ma bisogna indirizzarle e formarle. Un bravo giocatore è da subito un bravo allenatore? No, ma se studia è più probabile che lo diventi rispetto a chi non ha mai giocato.

 

Ci manca la figura di un Direttore Generale?

Un presidente di un’azienda che gestisce oltre 40 milioni di Euro, deve essere affiancato da un Direttore Generale. Non perché non sia competente, ma semplicemente perché professionalmente è impossibile gestire tutto. Le grandi aziende e i grandi Manager non solo delegano, ma lavorano per obiettivi su base temporale: e il lavoro delle persone si valuta in base al loro raggiungimento. E si prendono provvedimenti di conseguenza.

 

 

 

Permit player: col sorriso e tutelati 

 

Uno dei temi caldi, che andava affrontato prima di entrare in Pro12, è quello dei permit player. A che punto siamo e cosa serve?

Per noi questo è uno dei temi forti, un argomento fondamentale. Quello che chiediamo è una formalizzazione del regolamento, mettere nero su bianco l’intero processo dal rilascio, all’assicurazione, al ritorno al club. Sia chiaro, il sistema dei permit player è una grande opportunità e così deve essere visto: sia per un giovane giocatore di mettersi in luce in Pro12, sia per un giocatore delle franchigie che ha bisogno, per esempio, di riprendere ritmo gara dopo un infortunio. Ma entrambi devono giocarsi questa possibilità con il sorriso e sapendo di essere tutelati, sapendo che esistono precisi accordi che regolamentano l’intero processo.

 

Perché al mio avversario dai un giocatore celtico e non a me?

Una soluzione immediata non esiste, ma bisogna guardare a simili esperienze all’estero, imparare da loro e crescere. Per risolvere un problema bisogna capire e tentare: perché in Irlanda non esistono simili problematiche? E’ un tema che è in agenda da tempo, ma se ne parla e basta. Ed è un problema di visione: non bisogna guardare il dito ma la Luna, che è il bene dei singoli giocatori e quindi del movimento.

 

Conor O’Shea prima del Sei Nazioni ha detto che le cose cambieranno…

Già nel breve, speriamo. Ovviamente una persona da sola non può cambiare tutto, ma una scossa, una prima scintilla, possono avviare un movimento più generale. Come dice e ripete da quando è arrivato: se continueremo a fare le stesse cose i risultati non cambieranno.

 

 

 

Il sistema delle Accademie e il rischio decontestualizzazione

“Oggi c’è un sistema di Accademie molto forte, ma non dimentichiamoci che il cammino che ha portato il rugby italiano a questi livelli, è fatto di investimenti nei club. Oggi tutto è cambiato, anche questo sport è diventato una professione, un lavoro che una volta non esisteva. Una cosa però non è cambiata, ed è la distribuzione geografica della palla ovale, con città da Nord a Sud in cui è fortemente radicata ed altre zone in cui lo è decisamente meno. L’investimento sui ragazzi va fatto, questo è fuori discussione, ma bisogna capire come, dove e secondo quali necessità. E qui i dubbi non mancano, anche guardando alle esperienze estere”.

 

Quali sono debolezze e minacce di una simile struttura formativa?

Qui ovviamente do il mio parere personale, e sono conscio che sia molto facile commentare dall’esterno. In ogni caso, prendere un ragazzo di 16/18 anni e spostarlo in una zona e in un contesto nuovo, lontano da famiglia e amici, è limitante. Nel senso che per come è pensata l’organizzazione del lavoro in Accademia e il contesto in cui essa in alcuni casi si colloca, impedisce al ragazzi di vivere le esperienze normali della propria età. Sono anni in cui la vita va vissuta: in America e nel Regno Unito si crea attorno ai ragazzi un contesto stimolante dal punto di vista umano, ovvero strutture liceali e universitarie composte da migliaia di ragazzi e ragazze, di altissimo profilo e valore culturale, all’interno del quale si richiede loro di praticare sport ad un livello altrettanto elevato, senza scordare la formazione scolastica ma anzi valorizzandola ed esigendola. Come già detto è un problema che non coinvolge solo il rugby, ma se non troviamo soluzioni nell’arco di dieci anni non avremo più nessuno sportivo competitivo a livello internazionale. Ho visitato quattro università americane, esperienza che ti permette di capire quanto indietro sia il nostro sistema formativo sportivo.

 

 

 

Il diritto d’immagine: in continuo aggiornamento

 

L’immagine è ormai una componente fondamentale della nostra vita. Tanto più per chi è sotto i riflettori. Anche questo è un tema in agenda?

In questi anni il tema è cambiato moltissimo, o meglio i cambiamenti tecnologici hanno imposto aggiornamenti. Rispetto a una ventina di anni fa, tutto si è modificato. Anche in questo caso, abbiamo avuto rapporti con i colleghi sudafricani e sappiamo come le cose andrebbero fatte. Ma serve professionismo: la cura dei diritti d’immagini deve essere affidata ad uno studio legale esperto, che sia in grado di curarlo e di aggiornarlo.

 

Quale sarebbe lo scenario ideale?

Diritto di immagine significa tanti altri aspetti, alcuni relativi alla parte legale ed economica, altri relativi alla parte sportiva. Qui, se strutturati, potremmo aiutare formando i giocatori affinché la loro immagine, ed a specchio l’immagine del nostro sport, sia sempre tutelata, insegnando loro a parlare in pubblico e con i media, a rapportarsi con i tifosi e con gli sponsor. Tutte cose che contribuiscono alla crescita e alla professionalizzazione del movimento.

 

 

 

Varie ed eventuali: Lega di Club, Fondo di solidarietà e giovani giocatori

 

Le Lega di club sembra rinata e rimorta nel giro di poche settimane. Qual era la vostra posizione?

GIRA è favorevole a tutto ciò che possa contribuire alla crescita del movimento. Una Lega dei club, ma anche un’associazione allenatori, preparatori atletici o procuratori. Quando ci si interfaccia e si creano momenti di incontro e confronto, le idee propositive arrivano e le esperienze estere a cui dovremmo tendere lo confermano. Ma la cosa fondamentale è che ognuno veda l’associazionismo non come un momento per tentare di tutelare i propri interessi: l’obiettivo di oggi deve essere quello della crescita collettiva del movimento.

 

 

Avete seguito le recenti vicende su bilancio federale e Fondo di Solidarietà?

Sapere che la Federazione ha questo tipo di problematiche certo non aiuta, ed è chiaro che dovrà mettere in atto passi importanti. Ciò che noi vogliamo, è che questi passi non vadano ad impattare sulla tutela della salute dei giocatori. Abbiamo seguito la vicenda del Fondo di Solidarietà dal punto di vista normativo: è fondamentale che il Fondo sostenga i giocatori che ne hanno bisogno e ad oggi è sempre stato così e non c’è nulla da recriminare.

 

 

Come si pongono i giocatori più giovani nei vostri confronti? C’è più curiosità, preoccupazione o consapevolezza?

I giocatori più giovani vanno stimolati ed incontrati sistematicamente, cosa che purtroppo non sempre riusciamo a fare perché abbiamo il nostro “personale” impegnato sul campo da gioco ed in ufficio. Per ovviare a questo problema stiamo creando una rete di referenti nei diversi club ed abbiamo in calendario il “GIRA TOUR”. Rispetto al passato ad ogni modo c’è molta più curiosità e interessamento da parte dei più giovani, e lo testimonia il fatto che nel nostro Consiglio Direttivo ci sono Federico Conforti, Luca Morisi e Marco Fuser. Un ruolo importante lo hanno i leader di squadra, nel sensibilizzare e far conoscere queste tematiche. Poi con Internet e la circolazione di notizie, ci si mette pochissimo ad informarsi su esperienze e risultati ottenuti dalle associazioni straniere. Ma non dimentichiamo che GIRA è nata per volere dei giocatori, che al suo interno hanno sempre avuto un ruolo fondamentale.

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