John Kirwan: la depressione mi ha reso un uomo e un coach migliore

Esce in Italia “Gli All Blacks non piangono”, in cui Sir JK ripercorre gli anni della depressione. Lo abbiamo intervistato

ph. Action Images

John Kirwan non ha bisogno di presentazioni. Classe 1964, ha alle spalle una lunga carriera di giocatore e davanti a sé un’altrettanto lunga carriera di allenatore. Ha giocato 63 volte con gli All Blacks, segnando 35 mete e vincendo la prima storica Coppa del Mondo del 1987, quando contro l’Italia segnò una delle mete più belle di sempre nel primo match iridato in assoluto. Proprio quell’Italia che allenerà, prima come assistente e poi come head coach (2002-2005), per poi passare alla panchina del Giappone e infine a quella degli Auckland Blues, di cui tutt’oggi è primo allenatore.
Nel 2006 Kirwan ha reso pubblica la sua battaglia contro la depressione che lo ha colpito tra gli anni Ottanta e Novanta. Da allora, si è impegnato in prima persona in campagne di sensibilizzazione al fine di accrescere la conoscenza delle persone sul delicato tema di questa malattia. Ne è nato anche un libro, pubblicato nel 2010 in Nuova Zelanda in cui Kirwan ripercorre gli anni difficili della malattia, ma soprattutto la sua battaglia per sconfiggerla. Da poche settimane è uscita la traduzione italiana arricchita di alcuni nuovi capitoli dal titolo “Gli All Blacks non piangono – La mia vita, la mia battaglia”  (Ed. Ultra Sport – pp. 240 – 16,50 euro). O quasi mai…

 

In apertura scrivi che un errore comune è pensare che un All Black non possa soffrire di depressione…
La depressione, rispetto ad altre malattie, è molto democratica. Colpisce tutti, indifferentemente: vecchi, giovani, poveri, ricchi… Non fa pregiudizi di alcun tipo.

 

Il fatto di essere un All Black, e per di più così giovane, può aver contribuito alla tua malattia? E leggendo ho scoperto che anche il fattore genetico è rilevante
Guarda, ti dico subito che dal punto di vista della guarigione personale è inutile dannarsi per cercare le cause. Certo, avere vent’anni e giocare con gli All Blacks e la pressione che ciò comporta non è semplice, e in più in famiglia c’erano stati casi di attacchi d’ansia ignorati. Ma il lettore, e chi è purtroppo direttamente interessato, non deve pensare alle cause. Deve pensare ad ammettere la propria malattia.  Non affrontarla è il primo grande errore che si possa fare.

 

Il primo passo per risolvere un problema, è ammettere che c’è un problema
Come quando una persona è malata: puoi chiederti se sia una predisposizione familiare, se sia una casualità, o ancora se non sia stata la vicinanza di un’antenna. Ma in quel caso per guarire il prima possibile devi diagnosticarlo, e stessa cosa con questa malattia. Il primo passo è non chiudersi, ma prendere coscienza che si soffre di un male. Cercare il perché alla lunga può essere controproducente dal punto di vista medico.

 

La grande difficoltà è che ci troviamo davanti ad una malattia mentale…
Quando soffri o pensi di soffrire di una malattia fisica, si va subito dal medico. E perché con la mente dovrebbe essere diverso? Se sei un giocatore e hai uno stiramento, ti fai vedere dal fisioterapista, poi dal medico che ti prescrive i rimedi per migliorare. La testa non è diversa. Una volta che ho fatto il primo passo, ovvero ammettere di avere una malattia, il dottore mi diceva: comportati come se fosse un problema fisico. E non come se fosse una debolezza, ma una vera e propria malattia, perché tale è.

 

Quanto è importante rivolgersi ad uno specialista?
L’altro grande errore, dopo aver ammesso la malattia, è pensare di guarire da soli. Per prima cosa ho lottato io contro di essa, ma alla lunga, se ci pensi, è una lotta tra te e la tua testa, e lottare contro se stessi non ha molto senso, perché significa andare contro la propria stessa vita in modo cieco. Quindi, riconoscere e andare a curarsi. Da quel giorno puoi iniziare a lavorarci sopra.

 

Da quel giorno parte il tuo “cammino verso la guarigione”. Che è fatto di piccole tappe, di piccoli gesti…
La vita è complessa, ma bisogna dividerla in cose semplici. Mi piace godere dei piccoli momenti, perché sono questi che, sommati, danno la serenità. Per migliorare la mia vita non sono serviti enormi cambiamenti, ma valorizzare quei gesti quotidiani che avevo sempre fatto, ma senza la giusta predisposizione. La vita non cambia, cambia il tuo modo di viverla e di prendere il controllo su di essa. E’ una scelta che ognuno fa: e io per guarire dalla malattia ho scelto di viverla in questo modo nuovo.

 

Gustandoti un caffè o una doccia calda…
Nel libro faccio questi esempi piccoli, ma per me significativi. Prendi il caffè: la gente  lo beve di fretta, a me piace gustarlo lentamente. Stessa cosa la doccia, che mi piace farla calda godendo del calore dell’acqua. Oppure impegnarsi a leggere almeno un quarto d’ora al giorno, anche se è già tardi. Oppure un esempio che mi piace fare riguarda il traffico. Tu puoi decidere che non ci sia traffico?

 

No
Bene, allora puoi accendere la musica che ti piace, chiamare una persona che ti vuole bene. Per me fare la coda non è un momento brutto. In questo modo la mia vita sta avendo il controllo su qualcosa che non posso controllare. E’ la stessa cosa che avviene con la depressione. Devi tornare ad avere controllo sulla tua mente, che non controlli più, e questo dovevo fare. La mia testa era fuori controllo perché comanda la depressione. Poi ad un certo punto ho ripreso il controllo.

 

Non solo, ma paradossalmente sei arrivato ad una vita migliore di prima. La malattia come occasione di migliorarsi…
Adesso la mia vita è più ricca perché ogni giorno prendo questi momenti per me. Questo è un grande insegnamento che ho appreso dalla depressione. E grazie a questi gesti ho trovato l’equilibrio..

 

Anche l’attività sportiva e la sana alimentazione ti hanno aiutato
Non è per forza l’attività sportiva, è in generale l’attività. Sono andato a cercare le cose che mi fanno sentire bene con me stesso, le mie endorfine naturali. Ognuno ha la propria cura, i propri attrezzi per combattere la depressione. L’importante è trovarli, come ho fatto io. E questo libro vuole proprio essere un aiuto a chi soffre per mettersi sulla buona strada, e sapere di essere d’aiuto fa stare bene anche me.

 

Già, come quando scrivi che “fare cose per gli altri mi fa stare bene, mi fa sentire in pace col mondo, e di conseguenza più sicuro di me stesso”. Anche allenare è un modo per fare del bene ad altri?
Da allenatore, voglio che tutti i miei giocatori possano avere tutto ciò che di buono io ho avuto a mia volta dai miei allenatori, ma anche che capiscano il mio modo di pormi nei confronti di me stesso, la mia filosofia. Questo ovviamente vale per me uomo e allenatore, e cambia da persona a persona. Ma questo è un discorso che va bene per qualunque professione. Nel mio caso specifico, aver vissuto il rugby sia da allenatore che da giocatore è una grande fortuna.

 

Uomo e allenatore, insomma, vanno sempre a braccetto.  E lo scrivi chiaramente: “Cerco di essere lo stesso uomo sia quando alleno sia quando sono a casa con mia moglie e con i figli, o passo del tempo con i miei amici”.
Lo sport non fa parte della mia vita, è costitutivo della mia vita. Non posso parlare della mia vita senza parlare di rugby, sarebbe impossibile scinderli.

 

A proposito della dinamica tra vita e professione, nel tuo caso tra vita e sport, con il massimo rispetto e le dovute proporzioni, ti sei mai sentito nei confronti dei tuoi giocatori come il tuo medico nei tuoi confronti?
Allenare è un impegno anche a livello umano. Hai 30/35 giocatori e altrettante personalità. Prima di giudicare e affrontare un problema cerco sempre di mettermi nei loro panni. Quando c’è qualcosa che non va lo sento a pelle e non lo lascio passare, e in questo forse sono più bravo di prima.

 

Di nuovo la malattia come occasione
Forse ora sono più sensibile a cogliere certi aspetti problematici, e soprattutto se li colgo poi li affronto. Non voglio che i problemi vadano avanti, perché possono solo ingigantirsi. In questo sono sempre onesto con i miei giocatori, voglio bene a tutti loro e loro vogliono bene a me. Questa è la mia filosofia. E’ uno sport di contatto, duro, ma a livello di anima è importante che ognuno si esprima, che non si chiuda. E questo è il senso del titolo.

Pensi che la figura dello psicologo di squadra ti avrebbe potuto aiutare?
Certamente. Affrontare un avversario con decine di migliaia di persone in tribuna e poi essere giudicato da tutti non è facile. Il commento più comune è che siamo pagati per farlo, ma i soldi non centrano. Per giocare ad altissimo livello è fondamentale mantenere il proprio equilibrio, e in questo o psicologo di squadra può certamente aiutare. Anche perché essere forti e convinti conta prima di tutto mentalmente. In Nuova Zelanda stiamo cercando di sviluppare una figura affine ma non uguale, lo Sports Performance Director.

 

Di cosa si occupa di preciso?
Può essere un ex giocatore, o uno psicologo che in passato ha giocato anche non ad alto livello. E’ una figura che aiuta i giocatori dal punto di vista psicologico. Che li ascolti e li supporta. Le squadre hanno tre preparatori atletici per prevenire gli infortuni del corpo, perché non avere anche un preparatore mentale per prevenire quelli della testa? E’ a disposizione dei giocatori per i loro problemi, anche quelli relazionali, economici. Per migliorarti e dare tutto devi avere la mente non annebbiata, e il suo compito è metterti nella giusta condizione mentale per lavorare al meglio.

 

Da Auckland Casellato ha preso ispirazione per il leadership group. E’ una cosa normale in Nuova Zelanda?
Se vogliamo che un giocatore prenda decisioni giuste, deve viverle. Da noi è cosa normale e un modo di gestire le cose per noi importantissimo. Se vuoi che squadra vada in campo e faccia bene, devono capire cosa sta dietro gli ottanta minuti.

 

Nella tua carriera hai avuto a che fare con “tipi umani” tra loro molto diversi: italiani, neozelandesi e giapponesi. E’ un vantaggio fare tante esperienze?
La cosa importante per un allenatore è crescere e saper cambiare. Negli ultimi due anni ad Auckland sono cresciuto moltissimo. Allenare una franchigia in Nuova Zelanda è come allenare la Juventus! C’è pressione, ci sono aspettative, hai diversi All Blacks in squadra. Ma ovunque sia andato sono migliorato a livello tecnico e umano. Ogni tanto ci sono momenti di difficoltà, ma questi vanno affrontati, come nella vita.

 

Uno dei momenti più difficili, si legge, è stato il licenziamento nel 2005 da coach dell’Italia. Il problema, scrivi, è che rivolgevi l’attenzione solo ai giocatori, “ma essere primo allenatore vuol dire anche capire le dinamiche politiche”
In Italia ho imparato tantissimo. Come scrivo nel libro, ho imparato che una parte del lavoro di un head coach è anche politica. E’ una parte del nostro lavoro, e non può non essere così. E’ inutile raccontarsi che un allenatore ha a che fare solo con staff e spogliatoio, tanto più se sei head coach di una selezione e la Federazione è quindi il tuo datore di lavoro. Dal punto di vista sportivo, ho avuto il vantaggio di poter lavorare con un gruppo straordinario. Persone come Troncon, Ongaro, Bortolami, Lo Cicero e tutti gli altri azzurri che ho allenato, hanno sempre dato tutto, e li rispetto moltissimo.

 

Di Roberto Avesani

 

Nel 2010 il regista e attore neozelandese Julian Show,autore del documentario “Cup of Dreams” sulla vittoria degli All Blacks alla Coppa del Mondo 2011, ha girato un cortometraggio intitolato “All Blacks don’t cry”, sulla storia di John Kirwan. Lo riproponiamo qui sotto.

 

http://youtu.be/xxBikj3kRco

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