Rugby, soldi e ideologia: le Accademie come l’Articolo 18

I centri federali sono spesso al centro di critiche e polemiche, ma il dibattito non fa sempre della concretezza il suo cuore

ph. Sebastiano Pessina

Un paragone, quello con il ben più importante articolo 18, che potrà sembrare forzato e magari inopportuno ma alla fine non così sbagliato. Perché la discussione sulle Accademie in Italia spesso ormai trascende dai suoi aspetti più concreti fino a diventare un’arma da brandire pro oppure contro la FIR, a favore oppure contro i club. Dipende dalle posizioni di partenza. Non che non si parli anche degli aspetti più concreti, per carità, ma ormai l’aspetto “ideologico” – diciamo così – sembra aver preso il sopravvento.
Per sgombrare il campo dagli equivoci chi scrive ha una posizione intermedia sul tema: mettere in piedi delle accademie federali in zone ad alto tasso e/o tradizione rugbistica non è né troppo utile né produttivo. Anzi, sul medio/lungo periodo il rischio di distruggere il lavoro fatto negli anni dalle società legate al territorio è molto alto. Lì i club andrebbero finanziariamente aiutati dalla FIR, ovviamente solo quelli con progetti e quelli che danno risultati. Niente soldi a pioggia insomma. Al contrario nelle aree “di confine”, dove il rugby è poco praticato o ha scarsa tradizione le accademie federali potrebbero diventare importanti centri di raccolta delle forze presenti e soprattutto di propaganda e promozione.

 

Non vogliamo dire che il club sono meglio delle accademie “a prescindere”, ma le nostra storia rugbistica ha nelle società le proprie fondamenta. Negarlo sarebbe inesatto e intellettualmente scorretto. Il nostro cuore ovale pulsa lì. Allo stesso modo contestare l’importanza della struttura federale, soprattutto nel panorama di un rugby moderno sempre più professionistico, sarebbe semplicemente stupido.
Nel migliore dei mondi possibili le due cose andrebbero a braccetto, ma sappiamo che le cose non vanno sempre così, da nessuna parte: non è un caso che uno degli aspetti più importanti del nuovo accordo firmato ieri che governerà il rugby gallese riguardi proprio le accademie, che almeno fino al 2020 torneranno sotto la responsabilità delle Regions (e con la WRU che provvederà parzialmente a finanziarle). Ma anche strumentarizzare la vicenda gallese in funzione italiana sarebbe una forzatura, che tra Italia e Galles esistono similitudini ma anche differenze.

 

E allora come affrontare il tema accademie? Con un approccio molto concreto, l’unico che abbia veramente un senso. Che l’Italia abbia un numero di centri federali fin troppo elevato è un’affermazione difficile da smentire (le considerazioni dei giocatori esperti e che conoscono come funzionano le cose anche all’estero sono esplicative. Così come le prese di posizione di altre federazioni, come OnRugby ha potuto riferire un paio di mesi fa), ma anche il numero è solo un aspetto del problema, l’altro sono ovviamente i soldi. La struttura accademica federale proprio perché così ampia ha costi molto alti, ancorché difficili da quantificare. Cosa che – va detto – i bilanci federali non fanno in maniera chiara e trasparente. E qualche domanda sul rapporto tra costi e benefici, ovvero la quantità e la qualità dei giocatori prodotti rispetto alle risorse impiegate, bisognerebbe farsela. In maniera molto laica e senza preconcetti. Che ogni euro investito nelle accademie è un euro tolto al già non troppo economicamente sostenuto rugby di base, spesso costretto a (sopravvi)vivere nelle difficoltà. E con fallimenti, chiusure e ripartenze da livelli ancora più bassi che negli ultimi anni sono stati davvero tanti. Troppi.

 

Il Grillotalpa

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