15 giocatori vengono dalle squadre ultima e penultima nella Conference NZ del Super Rugby. Ma sono All Blacks, e poco importa
Tre vittorie sofferte contro l’Inghilterra, ma tant’è. La Nuova Zelanda si presenta ai blocchi di partenza del Championship 2014 da eterna favorita. Vero che l’Australia è cresciuta e il Sudafrica ha confermato nelle finestre internazionali quanto di buono fatto vedere lo scorso anno, ma McCaw e compagni sono ancora un passo avanti. Ce lo dicono i recenti risultati ma ce lo dice anche la recente storia del torneo, che da quando è stato allargato all’Argentina ha sempre visto i tutti neri trionfare.
Nel gruppo selezionato da Steve Hansen pochi colpi di scena e tante conferme. Dan Carter era rientrato in gruppo dopo la pausa sabbatica, ma l’infortunio durante la finale di Super Rugby lo costringerà fuori per almeno i primi due weekend di sfide. Poco male: Cruden si è meritato sul campo ogni singolo minuto che gli viene concesso, e dietro di lui c’è un Barrett che molti vorrebbero vedere in campo più spesso (della questione aperture abbiamo parlato recentemente). Ma che giochi uno o l’altro, la sensazione è sempre quella della macchina perfettamente assemblata ed oliata, in cui se cambi gli ingranaggi non alteri né velocità né affidabilità. Ma più che l’assenza di Carter è quella di Tony Woodcock che potrebbe farsi sentire, soprattutto nel doppio confronto contro il pack sudafricano. Nessun problema invece in seconda e terza linea, con quest’ultima che può contare sul rientrato Sam Cane. Per quanto riguarda la linea veloce, tutto liscio con con Aaron Smith ad accelerare, Cruden a distribuire, Nonu a spaccare, Conrad Smith a rifinire e Ben Smith e Savea a marcare.
Un ragionamento interessante che potrebbe essere fatto è quello sulla lista dei trentuno nomi scelti da Hansen. Di questi, otto vengono da Blues e Crusaders, sette dagli Hurricanes, cinque dai Chiefs e tre dagli Highlanders. Otto giocatori provengono dalla squadra che nel 2012 e nel 2014 è arrivata ultima nella Conference neozelandese del Super Rugby (Blues), e sette dalla penultima degli ultimi due anni (Hurricanes), per un totale di quindici forniti dalle ultime due arrivate quest’anno, che diventano diciotto con i tre degli Highlandes, terzultimi. Vero che per il Sudafrica è un azzardo fare un discorso simile, in quanto aperta a chi gioca fuori dai confini nazionali, ma le ultime tre di quest’anno (Cheetahs, Lions e Stormers) danno solamente sei giocatori. Con l’Australia il confronto si può però fare, data la stessa policy della Federazione: Rebels, Reds e Western Force, ultime tre della conference, portano in dote dieci giocatori. E il peso specifico dei nomi di Blues e Hurricanes è certamente maggiore di quello dei corrispettivi sudafricani e australiani, con quattro probabili titolari (Kaino, Nonu, Smith e Savea, che sarebbero cinque con Woodcock) finiti nelle ultime due posizioni del Super Rugby. Spesso è stato sottolineato come Hansen mandi in campo giocatori che non vengono da stagioni entusiasmanti con la propria squadra. Vero, ma poi il campo e la prestazione complessiva gli danno sempre ragione. Il grande merito di Hansen e più in generale della NZRU è quello di saper creare un ambiente in cui chiunque dà il massimo non in base alla stagione che ha giocato ma in base al giocatore che è: con la nazionale un All Blacks non dimostra il valore relativo ma quello assoluto. Se uno è forte, e Nonu è molto forte, allora con la casacca nera è sempre forte. Hansen lo sa, si fida ciecamente e lo manda in campo. E se lo trovate per strada e gli chiedete con quale squadra gioca, probabilmente non vi risponderà coi Blues ma con la Nuova Zelanda. Anche questo fa parte di quell’infinito universo e di quella straordinaria cultura che stanno dietro alla felce argentata.
Di Roberto Avesani
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