Un campo da rugby significa vita. Anche al Tour de France

Marco Pastonesi è al seguito della Grande Boucle. Dove ha incontrato un campo davvero speciale

Il giorno della tappa del Mont Ventoux, il centrostampa del Tour de France era stato posto nel Rugby Club Vaisonnais, a Vaison-La-Romaine. Mi sono sentito come a casa mia. Anzi, mi sono sentito a casa mia. Improvvisamente. Ma non inspiegabilmente. Infatti adesso vi spiego un po’ di perché.
Perché la prima cosa che ho fatto è stato cercare di impedire che gli altri giornalisti parcheggiassero le loro macchine sull’erba del campo. Un campo magnifico. Pali, alti. Prato, ricco. Panorama, superbo. Vento, maestrale. Atmosfera, provenzale. I miei tentativi sono risultati, se non ridicoli, comunque inutili.
Perché la seconda cosa che ho fatto è stato girare il campo, sconfinare oltre le aree di meta, camminando e calpestando, inspirando e immaginando. E quando sono arrivato a una macchina della mischia – spoglia, nuda, quasi scheletrica – mi sono perfino commosso.
Perché la terza cosa che ho fatto è stato stendermi sul prato per ricevere dalla terra quell’energia che la terra possiede. E impadronirmene. Chi ha giocato, e chi gioca, sa che il campo da rugby vive di una sua vita. Respira. E’ abitato. Se potesse, parlerebbe. Comunque racconta. Un giorno – mi trovavo a Rovigo e avevo un po’ di tempo libero – sono entrato nel “Battaglini” e mi sono seduto in tribuna a fare conoscenza con il campo, cioè con Maci e Doro, con i Bettarello e i De Anna. C’erano e non c’erano. Ed è lì che ho incontrato, la prima volta, Saverio Girotto. Lui sì che c’era. In carne, molta, e ossa. E siamo diventati amici.

 

Perché il campo da rugby è una chiesa a cielo aperto, è un teatro al vento e alla pioggia, è un palcoscenico di aria, è un caleidoscopio di colori, è una macchina del tempo, è un’accademia di belle arti.
Perché il campo da rugby non è solo un’accademia, ma anche una scuola, un collegio, una cooperativa, una comunità, è un vincolo, un legame, un codice, un parentado e una parentela, una famiglia, una serie di adozioni più o meno a distanza, è un club, una società, un tuffo nella memoria, un salto nel passato, una corsa anche stando belli fermi.
Perché il campo da rugby è – volendo – un a piedi nudi nel parco, è un giardino senza i Finzi Contini, ma con i Finzi e con i Contini, è un oltre il giardino, è la patria di tanti Rocky senza guantoni e di tanti Rambo senza mitra, di squadre annegate come Titanic o precipitate come Corazzate Potiomkin, ma anche di mille sogni alla Fitzcarraldo, è un Nuovo Cinema Paradiso.
Perché il campo da rugby è uguale eppure diverso a tutti gli altri, è simile eppure unico, ha una sua storia e una sua geografia, una sua personalità e una sua simpatia, o antipatia, nessun campo è perfetto, e poi dipende, e poi pazienza.

 

Perché il campo da rugby è una miniera di storie, una fabbrica di facce, un’officina di caratteri. Lo pensavo mentre percorrevo le linee di touche e di meta, mentre adoravo i pali e ammiravo l’erba, mentre curiosavo tra comunicati e foto del Rugby Club Vaisonnais. Le parole d’ordine – quasi una chiave di accesso allo spirito del club – sono “courage, solidarité, droiture et camaraderie”, concetti che non hanno bisogno di una traduzione.
Il RCV è nato il 29 maggio 1968, in pieno maggio francese, quello che a Parigi faceva le barricate e qui in Provenza le mischie. Amore del gioco, rispetto delle regole, convivialità con gli avversari: come dovunque, più nelle mischie – a dire la verità – che sulle barricate. E adesso, 45 anni dopo, centocinquanta tesserati, piccoli e grandi, categorie giovanili e squadre seniores. E maglie biancorosse.
Ecco perché il campo da rugby è dove mi sento come a casa mia, anzi, a casa mia. E dove vorrei che fossero sparse le mie ceneri. Un giorno. Non c’è fretta. Ho ancora molte cose da fare. Ho ancora molti campi da rugby da annusare, in Francia, soprattutto al sud, c’è un campo da rugby in ogni villaggio. C’est plus facile.

 

di Marco Pastonesi

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