Il segreto degli All Blacks? Strutture, qualità e una questione di continuità

Nuovo appuntamento con Antonio Raimondi. Che ci dice che il successo del “sistema” neozelandese non sta solo nelle strutture

COMMENTI DEI LETTORI
  1. mezeena10 4 Ottobre 2012, 15:16

    bel pezzo e gran chiosa!!! 🙂

  2. Roruma 4 Ottobre 2012, 15:32

    Pezzo eccezionale e sacrosanto, penso ormai che il rugby non sia cosa da italiani.

  3. wf2 4 Ottobre 2012, 16:14
  4. gian 4 Ottobre 2012, 18:56

    non credi che possa sembrare un controsenso dire che funzionano le squadre clan, quando si va da tempo ripetendo di professionalizzare le figure extra campo anche con elementi esterni all’ambiente rugby?

    • Antonio Raimondi 4 Ottobre 2012, 20:13

      In linea generale funzionano, soprattutto in ambiti di elevata concorrenza, quelle aziende che riescono a caratterizzarsi per consistenti modelli di comportamento, senso del bene comune e innovazione. Un caso classico é quello di Apple. Passando all’ambito sportivo e rugbistico, la tua obiezione ci sta, ma l’accettazione di figure professionali esterne, fermo restando la qualità delle competenze, passa dalla condivisione dei valori alla base del club.

      • gian 4 Ottobre 2012, 20:19

        grazie mille, mi dai una speranza che nel rugby di alto livello resti ancora un bel po’ di cuore oltre alle performances e agli affari per raggiungere gli obbiettivi. 🙂

  5. darios16 4 Ottobre 2012, 19:26

    Tutto vero e condivisibile ma perchè non possiamo farlo anche noi?
    Gli italiani possono giocare a rugby come quasi tutti gli altri,secondo me il problema sta proprio nella nostra incapacità di sviluppare il famoso “spirito di appartenenza”.Io sono di treviso e devo dire che qui il rugby ha prodotto notevoli risultati ma non basta allenarsi per risolvere il problema,bisogna,secondo me,trovare il modo per fare amare questo sport per quella che è,una sfida da vincere insieme,dove le abiltà dei singoli sono a servizio della squadra e tutti sono disposti a sacrificare qualcosa di proprio per il bene del compagno che ha accanto.Non c’è spazio per le primedonne in un campo di rugby.Ogni società deve avere delle caratteristiche uniche,formate nel tempo e condivise totalmente da tutti,dal presidente a chi pulisce gli spogliatoi,i piccoli devono conoscere i più grandi e viceversa,solo cosi si crea quel legame che porterà avanti i principi fondamentali.
    Credo che per un ragazzino del minirugby vedere a bordocampo i giocatori della prima squadra sia uno stimolo e soprattutto un chiaro messaggio:
    Sei uno di noi.
    Magari sono un illuso ma credo che cosi si potrebbe cominciare a creare il famoso “spirito di apparteneza” che magari ti permetterà di ritrovare i tuoi compagni dopo 20 anni e pensare che in fondo sembrava ieri che li hai visti l’ultima volta.

    • Antonio Raimondi 4 Ottobre 2012, 20:25

      Io penso che possiamo farlo anche noi, magari se concentualmente usciamo dalla zona di conforto e non facciamo resistenza al cambiamento. Magari puntando piú generale sul concetto di legalità, che significa rispetto di diritti e doveri. Per chi ha voglia consiglio il libro I dieci passi dell’amico Flavio Tranquillo.

  6. Hullalla 4 Ottobre 2012, 21:34

    Ciao Antonio, trovo stranissimo il fatto che a “livello All Blacks” hai parlato principalmente di nazionali (con il resto della nazione dietro), mentre a “livello Italia” hai parlato di clubs ma non hai citato minimamente la nazionale Italiana… credo che avrebbe potuto rientrare nel discorso…;-)

    • Antonio Raimondi 4 Ottobre 2012, 23:51

      Ciao Hullalla, sì, la Nazionale potrebbe rientrare nel discorso ma la mia idea era quella di portare l’attenzione e lo scambio di idee (ringrazio tutti perché i contributi qui sono sempre molto interessanti) proprio sui club, che sono una risorsa fondamentale del nostro movimento.

  7. ulisse 4 Ottobre 2012, 21:52

    Ho vissuto circa un anno in Nz e ho avuto il privilegio di lavorare come tecnico presso la Auckland Grammar School. Condivido senza esitazioni che il “metodo neozellandese” sia il migliore al mondo, tuttavia sono piuttosto scettico sulla sua applicabilita’ all’interno del Belpaese. Noi non nasciamo, come invece accade in Nz, con la palla ovale, ma con quella rotonda, che tendiamo a prendere piu’ volentieri a calci. Inoltre il nostro popolo e’ poco incline ad osservare le regole e all’applicazione del rigore, mentre le metodologie anglosassoni lo esigono.
    Personalmente credo che dalla Nz si possa prendere molto ma che una gran parte debba essere mitigato dall’influenza transalpina, certamente piu’ vicina al nostro modo di vivere ed interpretare lo sport.

    • mezeena10 9 Ottobre 2012, 10:08

      io non parlerei di “metodo”, ma di cultura..come avrai ben notato in nuova zelanda gia dalla primary school (le elementari italiane piu o meno) il gioco viene “studiato” e vissuto quotidianamente da tutti i bambini (maschi e femmine)..verissimo cio che dici sul fatto di nascere con l’ovale in mano e la scarsa adattabilità del modo di pensare italiano (un gioco dove ci si sacrifica per gli altri e si lotta suda e sputa sangue tutti insieme si sposa ben poco con la mentalita egoista ed egocentrica dell’italiano, non tutti fortunatamente e senza offesa!)..inoltre i nz, grande amanti dello sport in genere, vantano diverse eccellenze sportive, tipo la vela (leaders per progettazione, produzione e risultati sportivi in tutte le classi), l’atletica leggera e pure il kayak!!! (sam sutton 3 volte campione del mondo)..insomma lo sport e la cultura sportiva sono nel dna di ogni neozelandese, pakeha o maori che sia) aggiungo solo che la nz ha circa 4 milioni di abitanti, l’italia quasi 60

  8. Katmandu 4 Ottobre 2012, 22:06

    Bell’articolo fa riflettere pa gestione della cosa pubblica
    Spiego li hanno fatto decidere da una commisione esterna alla Nzru che dopo il mondiale che la scelta migliore era quella di tenere GH e sono a dati avanti per la loro strada dando fiducia al trio di comando
    Qui da noi sono molto attaccati alla poltrona e se ne vanno solo se schiodati da un contratto più allettante chiamali schemi…..
    In più sono sempre più convinto che non contano i numeri (la quantità) ma la qualità degli investimenti e del materiale umano con cui si ha a che fare
    Poi é giusto che una cosa fatta in nz non funziona in irlanda o in messico ma almeno provarci non a copiare ma seguire una linea e perseguirla

    • Katmandu 4 Ottobre 2012, 22:07

      Ps mi sono dimenticato si seguire la linea e perseguirla ma anche correggere in corsa gli eventuali errori

  9. Sator Arepo 5 Ottobre 2012, 05:40

    La cosa sconvolgente non è neanche che abbiano solo 146.000 praticanti; è che di questi, solo 30.000 sono seniores. Si può immaginare quanti giovani stiano costruendo…

  10. Marco.Frighetto 5 Ottobre 2012, 11:44

    Molto spesso, in Italia, il senso di appartenenza e l’identità che si costruisce (o si dovrebbe costruire) attorno a questo tipo di legame vengono confusi con un miope campanilismo, che non permette la condivisione e la circolazione di idee. A rimetterci, il più delle volte, sono i giocatori stessi. E le società non si accorgono che di conseguenza ci rimettono pure loro. Ostinatamente si trincerano dietro a una nozione di ‘continuità’ del tutto fraintesa: se voglio davvero dare solide basi alla mia identità lo devo fare attraverso il confronto, perché è nelle differenze che trovo ciò esalta le mie peculiarità. Quindi, porte aperte e meno ostruzionismi. La birra, in questo senso, può fare miracoli!
    MF

  11. sabrina mccaw 9 Ottobre 2012, 13:48

    aggiungo solo che una cosa stupenda per il rugby italiano la sta facendo DD con i suoi Camp, è un’iniziativa che andrebbe replicata di più e in più regioni, bisognerebbe raggiungere i ragazzini nelle scuole, spiegare, farli provare.. ma poi tocca alle società, professionali e non, fare la loro parte, investire tempo e risorse.. mi pare che ora come ora l’unica che si sforzi di rispondere a questi requisiti sia Treviso.. e poi la federazione dovrebbe abbandonare le logiche perverse di esterofilia anche nel settore tecnico, investire sulla formazione di alto livello di allenatori italiani, anche e sopratutto per la nazionale, invece per esempio Tronky, prima grande giocatore, fu poi riciclato come assistente allenatore senza preparazione specifica.. e così per trovare l’ultimo ct italiano della nazionale bisogna risalire a Marco Bollesan!

  12. nz71000 10 Ottobre 2012, 16:22

    Mi permetto anche di aggiungere che la nostra nazionale è il primo esempio di discontinuità della federazione che ad ogni fine mandato dei tecnici si permette di cambiare non solo l’allenatore ma anche la sua nazionalità. Passando da una filosofia del rugby francese, poi neozelandese, poi di nuovo francese, poi sudafricana ed ancora francese. Mi sembra un pochino confusa!

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