Ricordi e previsioni dell’ex capo allenatore di entrambe le nazionali che si sfideranno il 15 novembre a Torino

Nick Mallett – ph. Federugby
In mezzo a Italia e Sudafrica, quando si parla di rugby, c’è soprattutto un uomo: è Nick Mallett, 69 anni e una carriera da allenatore che lo ha portato sulla panchina di entrambe le nazionali, quella azzurra e quella del suo paese.
Con gli Springboks Mallett arrivò terzo alla Rugby World Cup 1999, dopo aver rischiato di eliminare l’Australia che si laureò campione, portandola ai supplementari. Prese le redini dell’Italia nel 2007, dopo Pierre Berbizier, e la portò fino alla mondiale 2011, con in mezzo la memorabile vittoria dell’Olimpico contro la Francia al Sei Nazioni.
Oggi fa il commentatore per la TV sudafricana e seguirà da vicino la tournée della squadra, che toccherà Torino il prossimo 15 novembre per la sfida all’Italia.
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“Credo che il Sudafrica arriverà molto concentrato a Torino – ha raccontato in un’intervista realizzata dalla FIR per l’occasione – L’Italia ha messo in difficoltà gli Springboks nel primo test a luglio, lavorando benissimo sul breakdown e rallentando il pallone. I sudafricani sanno che quella è una delle armi principali dell’Italia: dovranno cercare di ottenere un possesso veloce, con molto sostegno vicino al portatore. Giocheranno in modo diretto, con tanti duelli fisici, cercando calci alti per mettere sotto pressione il triangolo allargato italiano.”
“Per l’Italia sarà fondamentale reggere in mischia. Non si possono concedere sei o sette calci di punizione contro il Sudafrica, perché il rischio è quello di ritrovarsi nella propria metà campo, subire una maul e poi un’altra punizione, magari un cartellino giallo. Nel primo test in Sudafrica l’Italia è stata molto intelligente: in mischia introduceva il pallone rapidamente nel primo canale, facendolo uscire subito e riuscendo a evitare che il pacchetto arretrasse. Dovranno ripetere quelle soluzioni.”
“Molto del successo ottenuto dal Sudafrica dipende da Rassie Erasmus – ha raccontato Mallett – È un tecnico eccezionale, con piani di lungo periodo chiari e condivisi con la squadra. Ha creato un sistema per avere tre giocatori affidabili in ogni ruolo, tutti in grado di giocare una finale mondiale. Così se un titolare si infortuna, chi entra ha già esperienza e confidenza a livello internazionale.”
Alla guida dell’Italia Mallett vinse 9 partite delle 42 disputate. La sua nazionale fu una di quelle che segnava di meno, ma a distanza di quasi quindici anni è ancora una di quelle che ha subito meno punti in assoluto.
“Penso che i progressi del rugby italiano siano stati fantastici da quando le squadre sono entrate nella Celtic League, che oggi è la URC. Avere due squadre in quel campionato è stato fondamentale per alzare il livello della nazionale. L’Italia ha sempre avuto giocatori di talento come Parisse, Castrogiovanni o Masi, che però giocavano all’estero, in campionati professionistici. Il problema era per chi restava in Italia: serviva un contesto più competitivo. Giocatori come Alessandro Zanni erano molto talentuosi, ma avevano bisogno di misurarsi ogni settimana con un livello più alto.”
“In sostanza, il talento c’era allora come c’è oggi, ma mancava la profondità. I migliori giocavano fuori, e quelli che restavano facevano fatica a compiere il salto. Oggi credo che l’Italia abbia la capacità di battere chiunque, se gioca al meglio.”
Malgrado le difficoltà, ma anche qualche risultato memorabile, Nick Mallett conserva un ricordo speciale del suo periodo da capo allenatore dell’Italia: “Sono stato molto fortunato con il mio gruppo di giocatori. Ricordo di essermi detto che, per diventare un buon allenatore in Italia, dovevo prendere ragazzi come Leonardo Ghiraldini o Alessandro Zanni e migliorarli del 10% ogni anno. Dopo quattro anni, sarebbero stati il 40% migliori. È questo il mio ricordo più bello: veder crescere quei giocatori.”
La lista dei momenti speciali rispecchia quella di molti tifosi azzurri: “La vittoria contro la Francia nel Sei Nazioni, la prima in casa, fu indimenticabile: il giro d’onore, la gente che cantava l’inno, un’emozione straordinaria. È stata l’unica volta in cui ho pianto da allenatore. E poi la partita contro gli All Blacks al San Siro, davanti a 80.000 persone: perdemmo 20-6, ma meritavamo una meta di punizione. Fu una delle migliori prestazioni della mia gestione. Fu anche importante vedere come i giocatori cambiarono percezione nei miei confronti. All’inizio pensavano fossi lì solo per concludere la carriera e guadagnare qualcosa. Ma con il tempo, imparando meglio l’italiano e conoscendoli come persone, si creò un legame vero. Il momento dell’addio, dopo il mondiale del 2011, fu molto toccante. Mi sentivo davvero amico di quei ragazzi. Allenare l’Italia è stata decisamente la migliore esperienza della mia vita.”
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