Le Azzurre non sono riuscite a capitalizzare un potenziale tecnico enorme, e a York rimane solo la delusione. Le Springbok Women hanno giocato la partita perfetta, ma la squadra di Roselli ha sbagliato troppo

Italia fuori dal Mondiale dopo due partite: anatomia di una sconfitta (ph. World Rugby)
L’Italia è fuori dal Mondiale dopo due partite. Sembra incredibile, considerando che l’obiettivo minimo dovevano essere i quarti di finale e che il sogno delle Azzurre era di prendersi un posto tra le prime quattro al mondo, e invece la squadra di Roselli saluta così la Rugby World Cup, con una partita finale contro il Brasile che a questo punto non conta nulla, perché la matematica ha già emesso la sentenza. Francia e Sudafrica andranno avanti, l’Italia – dopo la sconfitta per 29-24 con le Springbok Women – tornerà a casa con tantissimi rimpianti per un Mondiale che poteva essere potenzialmente meraviglioso, ma non lo è stato.
Gli spunti di discussione sono tanti, potenzialmente infiniti, ma c’è una premessa certa dalla quale non si può non partire: dal punto di vista puramente tecnico l’Italia è più forte del Sudafrica e ha perso una partita che avrebbe potuto e dovuto vincere. La differenza sostanziale è una: il Sudafrica ha fatto la partita perfetta, semplice, quasi banale se vogliamo, con sportellate a non finire e break delle trequarti appena le azzurre andavano in debito d’ossigeno per il costante arretramento, ma l’ha fatta alla perfezione; l’Italia invece ha sbagliato tanto, troppo, quasi tutto, ed è sembrata lontana parente di quella che al Sei Nazioni aveva vinto in Scozia (che sta facendo un Mondiale strepitoso, finora), strapazzato il Galles a Parma e ribattuto la Scozia un mese fa, oltre ad aver messo in crisi quella stessa Francia che invece una settimana fa a Exeter ha fatto il bello e il cattivo tempo.
La partita
Nessuna ricerca di colpevoli. Non è lo scopo di questa analisi, né servirebbe a qualcosa. E proprio per questo rimarranno fuori dall’analisi le decisioni – seppur controverse – dell’arbitra australiana Ella Goldsmith, che su almeno due mete sudafricane poteva decidere diversamente, oltre a una gestione a tratti fantasiosa del breakdown. Ma la verità è un’altra: l’impressione, soprattutto nel secondo tempo, è che l’Italia avrebbe potuto giocare anche altri 160 minuti e questa partita non l’avrebbe ribaltata. Troppo confusionaria, troppo “disconnessa ed emotivamente tesa” come ha ammesso lucidamente Fabio Roselli a fine partita. Già, partiamo proprio dalla partita: il Sudafrica ha iniziato come tutti si aspettavano, attaccando a testa bassa e mettendo fisicamente in difficoltà le Azzurre, sempre in sofferenza in mischia e impossibilitate ad avere quel possesso di cui avevano bisogno per fare la differenza. Aver perso subito Tounesi, poi, ha ulteriormente complicato le cose.
Purtroppo, a differenza di tante altre partite, a York è mancata anche la difesa. Anche per merito del Sudafrica, va detto: le Springbok Women sono state sempre avanzanti, e questo alla lunga ha logorato la linea difensiva azzurra. Inoltre, la sofferenza in mischia consentiva alle sudafricane di poter giocare molto più libere le azioni da prima fase, perché le flanker e la numero 8 essendo sempre in arretramento erano molto più lente ad uscire dalla mischia e rientrare in gioco, e a quel punto il Sudafrica aveva già fatto arrivare il pallone alla solita Nadine Roos (scelta azzeccatissima da parte di De Bruin quella di schierarla ad estremo, probabilmente decisiva) e si potevano solo limitare i danni. Rispetto alla Francia la rimessa laterale è stata effettivamente rimessa a posto, ma non ha avuto la costanza e la qualità necessaria: la percentuale di touche vinte (83%, già non altissima) si è alzata perché Giordano ha portato giù almeno due palloni impossibili, che però non potevano garantire velocità e qualità nell’azione. Anche il drive si è visto realmente soltanto nell’azione che ha portato alla meta di Seye, per il resto è stato un’arma spuntata.
Inevitabilmente, una partita del genere ti segna anche nella testa. Il secondo tempo è stato tremendamente confusionario da una parte e dall’altra: il Sudafrica però in quel caos ci sguazzava, tanto trovava sempre la giocatrice in grado di fare strada a contatto e rimettere ordine, l’Italia invece ha dato impressione di non sapere più da che parte girarsi. Le giocate riuscivano per merito delle singole atlete, tecnicamente forti e capaci, ma quando c’era da costruire qualcosa la confusione prendeva il sopravvento. Due esempi su tutti: per due volte – una nel primo e una nel secondo – Beatrice Veronese è andata via di forza in mezzo al campo, poi quando si è trattato di servire D’Incà l’azione è sfumata, sia perché l’ala azzurra era in entrambi i casi in ritardo, sia perché entrambi i passaggi della flanker erano invece mal calibrati.
Il secondo esempio è ancora più significativo: la sciagurata e reiterata decisione di giocare dei calci di punizione alla mano nelle zone più improbabili del campo, quando l’unica cosa che serviva all’Italia era respirare, mettere ordine e guadagnare metri senza fare fatica, soprattutto visto che il piano di gioco consisteva nel giocare qualsiasi cosa dai propri 22. Anche perché il gioco al piede, purtroppo, non è stato all’altezza di un Mondiale: l’Italia poteva uscire dai 22 solo in due modi, o con un break delle proprie trequarti – ma è una cosa che può avvenire 3, 4, 5 volte in una partita se hai una squadra fenomenale nel farlo come quella azzurra – o con un calcio di punizione regalato dagli avversari. Quando il Sudafrica non sbagliava, invece, la pressione diventava asfissiante, perché non c’era modo di uscire da lì usando il piede.
Emozione ed esperienza
Per arrivare alle radici di una partita – e di un Mondiale – così sotto tono, bisogna analizzare un altro aspetto non da poco. In alcuni casi è mancato l’apporto delle giocatrici più esperte: gli ingressi di Arrighetti e Madia con la Francia non sono stati brillanti, Fedrighi non ha commesso particolari errori ma non è riuscita a fare la differenza, mentre Rigoni col Sudafrica ha offerto i soliti lampi di grande talento alternandoli però a errori – soprattutto al piede – che alla fine sono costati cari. Anche quello di Sillari è stato un mondiale sotto le aspettative.
Vero che c’è ancora un nutrito blocco di giocatrici esperte e che hanno dato il loro contributo (Giordano, Stefan e Duca su tutte) e altre che nonostante la giovane età hanno già un numero notevole di caps (Sgorbini e Tounesi tra le migliori, come sempre) ma va anche detto che per alcune giocatrici in teoria al secondo mondiale era come se fossero praticamente al primo. Stevanin, Granzotto, D’Incà, Vecchini e Seye in Nuova Zelanda c’erano, ma le prime due non hanno mai messo piede in campo, e le altre avevano dovuto accontentarsi di pochissimi scampoli di partita.
Non è un caso che proprio due giocatrici chiave di questa Nazionale, Stevanin e D’Incà, non siano mai riuscite ad entrare realmente in partita né con la Francia né col Sudafrica, offrendo due prestazioni ampiamente sotto il loro livello, probabilmente proprio perché il Mondiale richiede un’esperienza ancora superiore che si acquisisce solo col tempo. Vecchini dopo la Francia ha avuto una grande reazione e a York è stata tra le migliori, ma deve lavorare tantissimo sul lancio per essere una tallonatrice di livello internazionale. E poi ci sono quelle che giovani lo sono davvero. Mannini (20 anni appena compiuti) e Bitonci (19) hanno un roseo futuro davanti, ma non si poteva chiedere loro di più in un momento del genere e in una partita del genere. Tra 4 anni, probabilmente, saranno loro (e non solo, si spera) a trascinare l’Italia al prossimo Mondiale.
Una lunga rincorsa
E poi c’è forse la questione più importante. L’Italia ha ricominciato un nuovo ciclo a 7 mesi dall’inizio del Mondiale. Considerando il deludente 2024 delle Azzurre, che non riuscivano più ad esprimersi al meglio sul piano del gioco, Fabio Roselli e le ragazze hanno dovuto ricostruire un’identità ripartendo dalle basi, con un Sei Nazioni praticamente alle porte e un Mondiale che si avvicinava inesorabilmente. In totale, Roselli ha avuto 7 partite (5 al Sei Nazioni, più i due test) per costruire un gruppo, un gioco e un’identità in vista della competizione più importante del mondo. Così come non si cercano colpevoli non si cercano nemmeno alibi, però è innegabile che questa rincorsa probabilmente abbia inciso sull’esito di questo Mondiale: forse sarebbe servito più tempo, e forse i veri frutti di tutto il lavoro fatto da Roselli, dallo staff e dalle ragazze si vedranno nei prossimi anni, quando questa squadra comunque giovane crescerà ancora di più e – si spera – la disfatta di York diventerà solo un lontano ricordo.
Francesco Palma
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