Dalle scelte più rischiose e impopolari al modo in cui è entrato nella testa dei giocatori, fino a rendere di nuovo competitivo un gruppo che sembrava finito

Australia: un anno fa il baratro, oggi la rinascita. Come Joe Schmidt ha resuscitato i Wallabies (ph. Sebastiano Pessina)
Era il 7 settembre 2024, poco meno di un anno fa: l’Australia prese una batosta allucinante dall’Argentina, un 67-27 imbarazzante che fece pensare a tutti che la crisi australiana – a quel punto – non sarebbe mai finita, e che anche il successo sui Pumas della settimana prima era stato un semplice colpo di fortuna (e probabilmente era davvero così). Qualche giornalista locale, provocatoriamente, invocò addirittura lo slittamento di un anno del tour dei Lions per manifesta superiorità. Alzi la mano chi, in quel momento, avrebbe pensato di vedere dei Wallabies competitivi non solo contro i Lions, ma pure contro il Sudafrica campione del mondo.
La serie coi Lions doveva essere un 3-0 scritto. Invece, dopo un primo test oggettivamente deludente, l’Australia ha tirato fuori una gran bella serie, sfiorando il successo nella seconda partita – persa all’ultimo minuto in rimonta – e vincendo la terza contro tutti i pronostici. Non hanno portato a casa la serie, ma a quel punto importava poco: era il segnale più importante, l’Australia stava tornando. Certo, non tutti erano d’accordo: molti addetti ai lavori hanno parlato più di demeriti dei Lions (obiettivamente non al livello che ci si aspettava) che dei meriti di Joe Schmidt e dei suoi ragazzi.
Si pensava che il doppio crash test col Sudafrica avrebbe riportato i Wallabies coi piedi per terra, e dopo i primi 20 minuti di Johannesburg sicuramente più di qualcuno si sarà lasciato scappare una risatina, dopo il clamoroso parziale di 22-0 degli uomini di Erasmus. Il problema è che nei 60 successivi i Wallabies di punti ne hanno fatti 38, senza subirne più. Una vittoria incredibile, inaspettata, ma soprattutto la conferma che questa Australia non è un fuoco di paglia. Anzi, paradossalmente l’ulteriore conferma è arrivata a Città del Capo: vero, gli Springboks alla fine hanno vinto 30-22, ma con tanta, tanta fatica, e anche stavolta i Wallabies non hanno assolutamente demeritato. Mica male per una squadra che fino a qualche mese fa tutti davano per morta.
Come Joe Schmidt ha cambiato l’Australia
Prima Dave Rennie (al quale, a onor del vero, è stato perdonato molto poco) poi Eddie Jones: nessuno sembrava riuscire a tirar fuori nulla da questa squadra. Anzi, l’impressione era che ogni allenatore riuscisse a peggiorare la situazione. Joe Schmidt ha dovuto raccogliere le macerie lasciate dalla gestione precedente: le scelte bislacche di Jones, apparso sempre tesissimo e nervoso in quel 2023 da psicodramma, oltre a non aver portato risultati (clamorosa l’eliminazione mondiale ai gironi, sconfitti dalle Fiji e umiliati dal Galles) aveva anche spaccato lo spogliatoio, e il tecnico neozelandese si è ritrovato a dover ripartire praticamente da zero.
Nella testa dei ragazzi
Joe Schmidt è partito dalle basi, letteralmente, trasformando l’Australia da gruppo di giocatori individualmente dotati (e nemmeno tutti) a squadra con un’identità chiara e condivisa, semplificando alcuni aspetti del gioco e lavorandoci fino allo sfinimento. Dai racconti dei giornali australiani viene fuori uno Schmidt che poteva fermarti in qualsiasi momento in giro per l’albergo per spiegarti una nuova idea tattica, una nuova giocata che avresti potuto provare, tanto che i giocatori – terrorizzati – finivano per fare il giro largo per evitare, quando possibile, una sorta di riunione tattica aggiuntiva. Al di là delle estremizzazioni, questo lavoro costante nella testa dei giocatori ha fatto la differenza. Tutto questo senza mai perdere di vista il lato umano. Anzi, è proprio per questo motivo che fra un anno Schmidt andrà via. Ha bisogno di dedicarsi alla famiglia (il figlio soffre di epilessia) e allo stesso tempo non vuole portare i suoi problemi sul lavoro: “Non vedo l’ora che Les Kiss subentri e prenda in mano la squadra. È capitato in passato di dovermi scusare con i giocatori: una volta una volta ho perso la pazienza con uno di loro dopo che mio figlio aveva avuto una brutta giornata. Di solito riesco a separare le due cose, ma quando lui sta male, mi colpisce. So di avere una durata limitata in questo ruolo e di dover essere più presente a casa. Questo è un grande gruppo di ragazzi, ma ci sono altre cose a cui devo dare la priorità” ha raccontato il tecnico dopo la vittoria sui Lions.
E poi ci sono le scelte di formazione. A volte curiose, altre al limite della follia (Akuso-Sualii in campo a novembre senza aver quasi mai giocato una partita di rugby a XV, venendo dal League), a volte impopolari, ma sempre orientate a un unico obiettivo: mettere il campo il miglior XV possibile. Anche se sei il più forte, se non stai bene non giochi, o esci. Del resto, è il motivo per cui Will Skelton – devastante, ma dal minutaggio limitato – spesso non gioca 80 minuti, anche se magari potrebbe anche stringere i denti e provarci, ma il tecnico vuole che in campo ci siano sempre giocatori freschi e lucidi. Questo ha instillato nel gruppo un senso di responsabilità e meritocrazia: chi entra in campo sa che è perché ha dato tutto in allenamento, ha meritato il posto e ha rispettato gli standard di Schmidt.
Gli aspetti tattici
Come detto, Schmidt è ripartito dalle basi: via la rush defence che negli anni precedenti aveva lasciato voragini allucinanti agli avversari, facendo più danni che altro, e spazio a una difesa più compatta, legata all’aggressività dei placcaggi individuali sul portatore più che a un movimento collettivo eccessivamente rischioso. L’Australia rischia di meno e lascia meno spazi. Del resto, questa filosofia è ben spiegata dall’allenatore della difesa dei Wallabies Laurie Fisher, quello col cappello da pescatore sempre in testa per intenderci: “Il sistema è l’80% della difesa. Il resto lo fanno il talento, l’etica del lavoro e la capacità di leggere il gioco”. Fisher preferisce concedere qualche metro in più all’avversario, ma mantenere stabile la linea difensiva e permettere ai ragazzi un placcaggio sicuro e ben portato, per poi lavorare sulla ruck e dare il tempo alla linea di riorganizzarsi. Anche l’attacco è maggiormente incentrato su fasi più corte rispetto al passato, con passaggi meno ravvicinanti e il supporto costante degli avanti per evitare turnover, riducendo gli errori non forzati e allargando solo quando si è sicuri di poter avere lo spazio per essere pericolosi.
La vittoria di Twickenham
L’esempio perfetto arriva dalla meta che ha deciso Inghilterra-Australia a novembre del 2024, forse la vera partita spartiacque del ciclo di Joe Schmidt, quella che ha fatto capire ai Wallabies che si poteva tornare grandi. Nel finale di partita l’Australia, sotto di 2 punti, gioca gli ultimi minuti perennemente vicina al raggruppamento: uno, due passaggi e carica dritto per dritto. L’impressione è che stessero giocando addirittura per il drop, anche se si trovavano sulla linea dei 10 metri. Poi a un certo punto l’accelerazione improvvisa: McDermott gioca su Paenga-Amosa, che invece di caricare a testa bassa gioca dietro per Lolesio, il quale esce dalla pressione di Slade schiaffeggiando l’ovale su Wilson, che senza nemmeno pensarci serve Ikitau (un altro giocatore chiave su cui torneremo) e a quel punto la strada si è aperta. Il resto lo fanno il centro australiano che manda a farfalle Marcus Smith, e Max Jorgensen che apre il gas, saluta tutti e va a schiacciare.
Gli uomini
In campo, alla fine, ci vanno i giocatori, ma Joe Schmidt ha avuto il merito di scegliere quelli giusti e di valorizzarli al massimo con le giuste scelte tattiche. La coppia di centri Ikitau-Suaalii poteva sembrare un azzardo: Ikitau aveva giocato sempre e solo secondo centro in carriera, e in Australia fa tanta differenza perché spesso il 12 è di fatto una seconda apertura, mentre lui è un giocatore particolarmente fisico; Suaalii, addirittura, aveva sempre e solo giocato a Rugby League, si è ritrovato catapultato in campo alle Autumn Nations Series e con il collega di ruolo ha trovato un intesa immediata, diventando immediatamente non solo imprendibile – e la scuola del League si vede tutta – ma anche perfettamente “dentro” le dinamiche di gioco dei Wallabies. Del resto, dopo Inghilterra-Australia, un certo Michael Hooper disse estasiato: “È stato fantastico. Come fai a fare una cosa del genere? Prima partita di rugby union a livello professionistico e giochi così?”.
Schmidt è stato bravo a scegliere i suoi giocatori chiave, primo tra tutti Will Skelton, ma è stato altrettanto bravo a non rendere nessuno indispensabile e insostituibile. Lo stesso Skelton, quando non ne ha più, esce. Valetini è stato fuori tanto tempo, ma è stato ben sostituito e quando è tornato ha fatto di nuovo la differenza. Paradossalmente, l’unica volta in cui Schmidt ha abiurato a questo principio ha perso una partita che poteva vincere: la seconda con i Lions, quando pur di non togliere Wright dal ruolo di estremo ha giocato 70 minuti con McDermott (un mediano di mischia) all’ala.
E poi il tecnico ha dovuto affrontare il problema più difficile, quello della mediana. Infortunato Lolesio, infortunato Lynagh, Donaldson meglio da estremo e comunque non così affidabile da 10, Schmidt ha tirato fuori dal cilindro (e forse dal congelatore) nientemeno che James O’Connor, che lo ha ripagato con una prestazione superba nella vittoria contro il Sudafrica. E poi c’è stata la crisi dei numeri 9: Tate McDermott è un ottimo mediano, ma funziona molto di più dalla panchina che da titolare, Gordon è stato addirittura eletto capitano per un periodo ma si è infortunato e in generale non è mai riuscito a dare sicurezza al reparto. E quindi? Tocca ancora a Nic White, addirittura convinto a ritardare il ritiro per giocare anche il Rugby Championship. Avrebbe potuto essere al mare a godersi una meritava vacanza, invece il baffo più famoso d’Australia (almeno rugbistica) ha risposto presente. Insomma, in campo ci vanno i giocatori, ma Schmidt ha saputo sceglierli bene.
Francesco Palma
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