Sharks-Bulls, quando il rugby non è matematica

Le finali non vengono sempre vinte dalla squadra che sulla carta è più forte. Per referenze chiedere agli Sharks del 2007.

bulls sharks 2007 super rugby

Bryan Habana, stella dei Bulls 2007 – ph. ALEXANDER JOE / AFP

L’Anonima Piloni vi racconta di una delle finali di Super Rugby più agoniche e thriller degli ultimi anni. Gli Sharks mettono insieme una stagione incredibile, ma basteranno le statistiche per battere i Bulls?

Una delle prime cose che vi insegnano su un campo da rugby è che la matematica non è un’opinione. Se hai in squadra una buona mischia, un ottimo calciatore e gente col fiuto della meta difficilmente perdi. Che equivale a dire che due più due difficilmente non farà quattro.

Perché il rugby è sport tanto bello quanto crudo, lascia poco spazio alle decorazioni se sotto non c’è un impianto che pompa.

Ecco, la stagione 2007 del Super 14 non può sfuggire a questa regola. Soprattutto se dal primo drop di avvio della prima partita dell’anno è ben chiara una cosa: le sudafricane, questa volta, hanno una marcia in più.

Prendete gli Sharks, per esempio. Fuori dai playoff della stagione precedente dopo aver fatto gli stessi punti della quarta, nel 2007 non sbagliano un colpo. Fanno affidamento su una prima linea rocciosa, con un capitano mai visto così. Una terza linea spaventosa per potenza e cattiveria agonistica, un numero 10 silenzioso e completo, un cecchino a far buona guardia dietro e il metaman del torneo all’ala.

Una squadra fortissima, in grado di far fuori in semifinale i Blues di Isa Nacewa segnando venti punti negli ultimi venti minuti. Oppure prendete i Bulls. Potrebbe bastare il reparto di seconde linee più devastante al mondo, ma non si fermano qui. Ci aggiungono il più argenteo cervello in attività, un’apertura in stato di grazia e un’ala che non ha niente da invidiare al suo dirimpettaio degli Sharks. Loro in semifinale disinnescano i Crusaders di Dan Carter, mettendoli fuori combattimento alla distanza.

No, se due squadre del genere decidono di pestare sull’acceleratore non ce ne può essere per nessuno.
E allora è normale che la finale del torneo, per la prima volta dal 1996, sia completamente sudafricana. Perché è vero, come han fatto notare alcuni detrattori, che molti dei giocatori neozelandesi e australiani sono rimasti a riposo per buona parte della stagione, ma è pur vero che nelle partite decisive i papabili per le maglie degli All Blacks e dei Wallabies c’erano eccome. Ed è normale che la finale si giochi a Durban, casa degli Sharks primi classificati nella stagione regolare.

E non dovrebbe scappare alla logica delle cose il fatto che gli Sharks visti durante la stagione vincano. Non nettamente, è pur sempre una finale. Vincere sì, però. E infatti il loro cecchino, Percy Montgomery, centra i pali per primo dopo pochi minuti. Nonostante l’ala avversaria, quella temibile citata qui sopra, l’abbia quasi ammazzato con un placcaggio pericoloso. Ha quasi trentacinque anni, età non più verdissima per un trequarti, ma potrebbe giocare tranquillamente apertura o centro per la capacità di utilizzo di tutta quella materia grigia.

Gli Sharks ne hanno di più, occupano bene il campo, tengono benissimo in difesa.

Solo che pagano carissima la prima leggerezza.

Derick Hougaard prende la palla e, da 45 metri, avrebbe una voglia pazzesca di pareggiare i conti dalla piazzola.

D’altronde ha appena abbattuto i Crusaders con otto piazzati e un drop, il piede è quantomeno bollente. Il capitano, però, se lo prende vicino e gli indica la touche. Sembra dirgli: “Poi mi arrangio io”. Eh, se per la touche si arrangia Victor Matfield un po’ ci si può fidare. Soprattutto se al suo fianco opera – anestetizza, meglio – tale John Philip Botha, detto Bakkies.

Con un reparto di seconde così due touche a partita me le posso pure permettere.

I Bulls entrano furiosamente nei 22, poi il pallone arriva a Matfield, che non è solamente una delle seconde linee più forti del pianeta. Perché sarà pure un cristone catastabile di più di due metri per più di un quintale, ma ha intelligenza e mani da far invidia a tanti mediani di mischia. Non al suo, che è Von Karajan, e magari nemmeno a quello degli Sharks, ma il passaggio per l’accorrente Spies da primo uomo in piedi è di seta purissima. Spies entra con un angolo che non è calcolabile, meta.

Alla prima occasione utile.

Eh no, la matematica la si lascia per il terzo tempo, forse.

La partita è durissima, le squadre se le danno di santa ragione. Il ritmo è frenetico, ci sono due numeri 9 di livello assoluto che si stanno giocando la maglia da titolare per Tri Nations e Coppa del Mondo.

Da una parte, sponda Sharks, c’è un lungagnone che potrebbe giocare in tutti i ruoli fuori dalla mischia, che placca come un dannato e che, nonostante più di centottanta centimetri sul groppone, ha tempi di reazione da brevilineo. Verrà a giocare in Europa qualche anno più tardi, Ruan Pienaar, darà spettacolo con la maglia di Ulster. Ma lì, nel bel mezzo della sua Durban, sta cercando di mettere i piedi in testa al suo diretto avversario. Mica facile eh. Perché se per Fourie Du Preez si è sbilanciato pure Eddie Jones un motivo ci sarà. Fourie è il polso di Valentino Rossi dei giorni migliori, ha almeno mezzo secondo di vantaggio su tutti. Dà tempi e angoli di corsa incomprensibili per gli avversari, diventando imprendibile negli spazi allargati.

Come quando riesce a cogliere di sorpresa la difesa degli Sharks cambiando il senso. Crea una superiorità per Spies, che dovrebbe fare il giro attorno al suo diretto avversario e andare dritto. Il numero 8 dei Bulls, però, non è Fourie du Preez. Ma non è nemmeno Matfield, che avrebbe portato il pallone in avanzamento. E allora si allarga a cercare Ndungane, la sua velocissima ala.

Che non sarebbe nemmeno una brutta idea, se si fosse in superiorità numerica al largo.

Il problema è che il movimento l’hanno già capito in tribuna, figuratevi quelli in campo.

Il primo a comprendere il pericolo è Montgomery, che riesce ad irretire la corsa del numero 8. Di lì non si passa più. E quando Spies rilascia il pallone per il più classico dei passaggi sottopressione, ce n’è un altro che ha capito tutto.
Uno dei due è il metaman del torneo, JP Pietersen.

In quei cinquanta metri non lo prendi nemmeno se ha una targa appiccicata al sedere, meta e sorpasso.

La botta è brutta. Perché agli Sharks non puoi concedere mete e palloni del genere. Non in maniera così facile. E, soprattutto, non puoi permettere loro di segnare punti anche quando tutta la mole di lavoro del tuo avversario sembra più sterile del solito. Già, perché Smit e i suoi attaccano, fanno metri, mettono grossa pressione alla difesa dei Bulls, ma faticano incredibilmente a concretizzare. Gli unici movimenti nel tabellino sono quelli di Montgomery da una parte e del numero 10 dei Bulls, Derick Hougaard, ritornato ad altissimi livelli dopo un lunghissimo periodo di buio interiore. Hougaard è stato l’eroe della semifinale vinta contro i Crusaders, ma era da tempo che non si esprimeva come gli capita nel 2007. E dire che si puntava molto su di lui già nel 2003, quando era fresco di record di punti in una partita strappato ad un certo Naas Botha ed era stato appena convocato per la Coppa del Mondo australiana a diciannove anni appena compiuti.

Pazienza se, in quel Mondiale, la sua presenza fu notata solamente per il placcaggio ricevuto da Brian Lima.

Poi, però, si perse, ed è dura ripartire se l’autore del placcaggio più duro lo devi ricercare allo specchio.

La strada per la Coppa del Mondo 2007 per lui è in salita, nonostante stia stravincendo la concorrenza a livello di franchigia con Morné Steyn e nonostante un finale di stagione clamoroso. Prima di tutto perché c’è un gigantesco convitato di pietra, André Pretorius, apertura dei Lions, infortunato e fermo praticamente da un anno. Jake White non ha mai nascosto di voler aspettare uno di quelli che ha espugnato Twickenham quasi da solo. E poi perché il suo avversario diretto in finale sembra veramente il mostro finale dei videogiochi. Butch James non sbaglia un colpo da anni. Tanto è solido e feroce in difesa, quanto è soffice ed educato al piede, soprattutto quando la partita diventa una lunga sequela di mosse di scacchi. Vero, non è il primo delle gerarchie dalla piazzola, ma con altri due calciatori con ottime percentuali uno come James lì in mezzo è oro colato. Ed è proprio James a salvare una meta fatta ad inizio ripresa: ennesima palla dolcissima di Matfield da primo uomo in piedi, angolo maestoso di Olivier, primo centro Bulls. Che si prende una cancellata paurosa a cinque metri dalla linea di meta ad opera del numero 10 degli Sharks.

Il tabellino si muove a rilento, Montgomery da una parte, Hougaard dall’altra, quattordici a tredici.

Mancano venti minuti alla fine.

Quelli bravi e che non giocano dicono che le partite cominciano dopo che si gioca da un’ora.

Quelli che giocano, bravi o meno bravi, dopo l’ora continuano a spingere. E lasciano sul campo gli strascichi di quello che sono stati nella prima ora.

È una partita agonica, Sharks e Bulls è una lotta senza quartiere. Solo che tutto questo non era nei piani dei padroni di casa. No, a Durban si doveva vincere bene, si doveva coronare una stagione meravigliosa, non arrivare al traguardo in volata. Perché tante volte le volate sfuggono al due più due, alla matematica ovale. E finiscono a volte per premiare non il più veloce, non il più bravo, ma chi è più abituato a sofferenza, ossa ammaccate e magliette strappate. A convivere con la lancetta della riserva che barcolla ma non molla.

E i Bulls mica mollano.

Anzi, un drop di Jaco van der Westhuizen su una liberazione non andata dove doveva fa venire i capelli dritti a Durban e dintorni, col pallone stretto di poco. Solo che a quattro dal termine devono capitolare: poderosa maul degli Sharks nei 22 avversari, Muller viene fermato a cinque metri. Non è che ci sia spazio per tante giocate chiamate, è un autoscontro dopo l’altro. Poi Van der Berg, mastodontica seconda linea partita dalla panchina, va oltre. Il movimento del pallone in area di meta non è dei più puliti, ma l’arbitro convalida. Lo stadio esplode, il fiatone di qualche secondo prima è scomparso, riappaiono le birre, si può festeggiare.

A trasformare la meta ci va l’ala. Non Pietersen, l’altra ala. Che è un ragazzino di nemmeno vent’anni che solamente in Sudafrica possono far giocare così al largo. È il proprietario di uno dei piedi più deflagranti del globo terracqueo, per referenze chiedere ai ragazzi di Clermont, che una sera si videro recapitare un drop che aveva messo insieme ottanta metri di gittata. Frans Steyn però, non è solo questo. Sarà uno dei due giocatori sudafricani – l’altro è Os Du Randt – a vincere due Coppe del Mondo nel giro di 12 anni. Ha già debuttato con la Nazionale a 19 anni, è l’estremo del futuro, visto che Montgomery lascerà il Sudafrica alla fine della Coppa del Mondo.

Solo che quella trasformazione la sbaglia.

E allora non è ancora finita.

I Bulls si gettano subito alla ricerca del miracolo sportivo. Non sono più la squadra bilanciata del primo tempo: in questo momento non c’è più Du Preez a dirigere i lavori, Hougaard è passato a primo centro per far posto a Morné Steyn, non a suo agio al di fuori della cabina di regia. L’estremo è Van der Westhuizen, altro mediano d’apertura, questa volta più propenso a uscire dalla zona di comfort. Di contro non è cambiato poi molto, a cominciare da una difesa ancora impenetrabile. I Bulls capiscono che per sfondare bisogna andare al largo e servono Ndungane all’ala, ma gli avversari scivolano bene.

È un’azione lunghissima, per due volte i Bulls calciano, per due volte James e Steyn ricacciano di là il pallone. Lo devono fare, non è ancora scattato l’ottantesimo.

E allora i Bulls ripartono. Ancora a metà campo, ma non si passa. Allargano il pallone a Spies, che riesce ad avanzare di potenza e a servire al largo la sua ala. Non Ndungane, l’altra. Ala che si era fatta notare all’inizio per un pericolosissimo placcaggio aereo su Montgomery, poi qualcosina. Qualche sgasata, ma niente di eccezionale per un giocatore del genere. Bryan Habana non è giocatore da sgasatina. Riceve il pallone di Spies e muove quei pistoni che si ritrova dentro ai calzettoni, arriva a ridosso dei ventidue. Habana ha un personale di poco sotto ai 10 secondi e mezzo sui 100 metri piani, è un giocatore che va preso subito, non esistono mezzi centimetri. L’ovale esce ancora, gli Sharks cominciano a mostrare segni di cedimento al largo, Ndungane entra di prepotenza e viene fermato a stento a sette, massimo otto metri dalla linea.

Sul pallone c’è Heini Adams, riserva di Fourie Du Preez. Serve Hougaard, che vorrebbe provare la sortita, ma non ci sono spazi. Viene placcato, ma Adams si ripropone subito e serve lunghissimo.

La palla arriva ad Habana.

Che non è solo uomo di corsa, altrimenti quella carriera lì mica la faceva.

Si rende conto che la difesa avversaria è sì scivolata bene, è sì ben posizionata, ma che i difensori sono cotti e non possono reggere altri cambi di ritmo. E allora va a cercare un buco dove i difensori sono nel bel mezzo di uno sfiancante cambio di assetto. Rientra, disegna una curva da Bolt e gli si spalanca davanti il deserto.

Nessuno Squalo lo può prendere.

Durban si avvolge di un silenzio irreale. Hougaard centra i pali da posizione comoda, è trionfo Bulls al termine di una ultima azione che è un invito all’ateismo, più che alla matematica.

I calcoli torneranno di moda qualche mese più in là, quando gli Springboks demoliranno la concorrenza e conquisteranno la Coppa del Mondo. Perché una delle prime cose che vi insegnano su un campo da rugby è che la matematica non è un’opinione. Se hai in squadra una buona mischia, un ottimo calciatore e gente col fiuto della meta difficilmente perdi.

Che equivale a dire che due più due difficilmente non farà quattro.

Regola che vale anche in Sudafrica, ma solo se l’altra contendente non è di quelle parti.

Cristian Lovisetto – Anonima Piloni

Tutte le precedenti puntate di Anonima Piloni le trovate qui.

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