“Benvenuti a Meadsville” il paese che deve il suo nome a Colin Meads

Quando il tuo nome diventa il nome del tuo paese, vuol dire che ce l’hai fatta. Il neozelandese Colin Meads ce l’ha fatta.

Colin Meads

Colin Meads

L’Anonima Piloni vi racconta di Colin Meads, leggendaria seconda linea neozelandese. Talmente forte e rispettata che qualcuno ha deciso di ribattezzare la cittadina di origine, diventata per anni meta di pellegrinaggi.

Meadsville, 4700 anime sparse ma non disperse, 80 chilometri da Hamilton, Nuova Zelanda. Se ci arrivate troverete una cittadina verde, rigogliosa, con ancora i suoi bei greggi di pecore che si fanno i giri di campo. Un angolo rurale di quelli che dalle nostre parti tante volte rimpiangiamo. Meadsville, però, non è solo questo: è praticamente uno dei santuari della palla ovale che corre all’indietro, nonostante le fattezze e le dimensioni ne facciano un piccolo borgo in cui è più facile perdersi che altro. Ve ne accorgete subito, a cominciare dai cartelloni di benvenuto: “Benvenuti a Meadsville. Per favore riporre nell’apposito cestino i palloni da calcio”.

Se non l’avete capito, qua il rugby è una cosa seria.
E se non siete ancora abbastanza convinti, guardatevi l’immagine che correda i cartelloni. È uno sguardo che quei palloni te li leva praticamente dalle mani, non fa prigionieri. Volto squadrato e risoluto, orecchie leggermente a sventola di cui forse è meglio parlare il meno possibile. Sembra l’avventore da saloon che non ha mai avuto problemi, anche perché nessuno andrebbe mai a creare problemi a uno così, se solo sapesse dei 192 centimetri e dei 100 chili di muscoli che si porta a spasso.
O del suo soprannome, Pinetree, il Pino, inteso come albero.

Provate ad andare a mani nude contro un albero e a buttarlo giù. Provate a buttare giù Sir Colin Meads, di Meadsville. Che non si chiama Meadsville, si chiama Te Kuiti, ma quando ospiti dei personaggi del genere è sempre meglio rifarsi il trucco. Le 4700 anime sparse e non disperse decidono di darsi un nuovo indirizzo nel 2011, in occasione della Coppa del Mondo di Rugby. Con risultati, a stare bassi, lusinghieri: è praticamente un pellegrinaggio, il Pino si trova in casa persino un canadese, dice di volergli dare una mano a scavare nel giardino. Gente anche di dieci nazionalità diverse al giorno. Spunta persino un cartello che avvisa i lettori riguardo la presenza o meno di Meads nella sua tenuta.

Forse qualcuno lo aveva previsto, e allora gli abitanti lasciano agli onori degli atlanti il nome maori e lo sostituiscono con il nome del più grosso personaggio mai esistito alle loro stesse latitudini. Perché Colin Meads qualcosa di grosso l’ha fatto, oltre ad essere un forte intimidatore da cartellone. Qualcosa come 55 caps con gli All Blacks in 14 anni, che a voi sembreranno pochi, ma tra il 1957 e il 1971 non c’erano né Coppa del Mondo, né Rugby Championship, né i Tour avvenivano con la cadenza che conosciamo oggi. Oggi uno così arriverebbe tranquillamente sopra i 100, sulle decine da aggiungere al conto, poi, si può discutere. Seconda linea, anche se il suo debutto è all’ala, visto che allora come oggi in Nuova Zelanda avevano una certa abbondanza in pressoché tutti i ruoli. Solo che appena il Pino si prende la maglia numero 5 non la molla più, perché un giocatore del genere da quelle parti (e da queste, ça va sans dire) non si è mai visto. Guardatevi, quando avete tempo, le movenze di Brodie Retallick in campo aperto. Meads le faceva sessanta anni fa, con effetti devastanti, oggi come allora. Più allora che oggi, a dire la verità. Altezza e peso non sono molto diverse dai suoi pari ruolo, e il fare due chiacchiere con lui lontani da un rettangolo verde vi restituirà un uomo mite, tranquillo. Un buono. Certo, tutto giusto.

Peccato che il ragazzo viva e lavori in una fattoria neozelandese da quando ha smesso di gattonare, il che gli porta in dote un impatto fisico e una possanza che hanno poco a che fare con le misure sopra riportate. E peccato che il ragazzo, appena indossa la maglia numero 5 di King Country o della Nazionale, diventi uno dei più furiosi e furenti giocatori mai visti con la felce argentata sul cuore. Talmente dentro il match dal non sentire il dolore arrecato negli impatto. Gli aneddoti e le leggende su di lui si sprecano, come quando in un raggruppamento contro la Francia un piede avversario gli aprì la testa, trasformandolo nel protagonista del vostro splatter preferito. Il medico al seguito degli All Blacks vorrebbe portarlo all’ospedale, ma riceve un rifiuto grande come una casa. Nello spogliatoio, durante l’intervallo, nessuna obiezione. Provate voi ad obiettare qualcosa, in quei frangenti. Gli furono applicati 18 punti di sutura. E fare presto, che nel successivo raggruppamento doveva esserci a tutti i costi.

O come quando, a metà partita non sentiva più molto bene la mano. Il medico non se ne curò molto, voleva giocare e non sembrava nemmeno così sofferente. A match finito, negli spogliatoi, si resero tutti conto che il Pino aveva giocato almeno metà di quella partita con un braccio rotto. Sono i tempi in cui, nei raggruppamenti, era meglio rigar dritto, altrimenti alla prima occasione utile scattava la controffensiva. Come quando un arbitro lo colse in flagranza di reato con una gamba avversaria in mano. “Ehi, Meads, metti giù quella gamba”. La risposta fu pronta: “Non ti preoccupare ref (referee), volevo solo vedere di chi era!”.

Andò decisamente bene a John Gainsford, centro del Sudafrica, che un giorno provò a sfidarlo alle brutte. Meads lo prese e lo strinse forte, dicendogli solamente “Figliolo, non rompere”. Gainsford, da quel giorno ha sempre raccontato a tutti di essere sopravvissuto ad una autentica dama di Norimberga. Sembra sia solo una leggenda invece l’aneddoto forse più famoso, quello che lo avrebbe visto fare tutti gli allenamenti previsti con due pecore sottobraccio. Sembra sia solo un racconto da pescatore messo in giro dal fotografo che lo ritrasse in quella posa, durante un’intervista nella tenuta di famiglia. Sta di fatto che, con un fisico del genere, va avanti a giocare con gli All Blacks senza sforzo apparente fino a 35 anni, che non sono così pochi ora, figuratevi nel 1971. Solo che a decretare la fine della carriera ad alto livello fu un incidente stradale: schiena a pezzi. Tornerà incredibilmente a giocare, ma forse per la prima volta nella sua carriera crede sia meglio rallentare. Giocherà altri due anni a King Country, unica squadra di provincia, mai abbandonata, nemmeno quando poi ne sarà il presidente. Con gli All Blacks, comunque, non finisce qui. Tornerà nel 1986 da commissario tecnico e partirà con i suoi per un tour in Sudafrica. La cosa non viene vista bene a casa, agli All Blacks (e ad altre nazionali) per anni sarà posto il veto di affrontare chi è nell’apartheid fino al collo. Meads ci va lo stesso con i New Zealand Cavaliers, selezione in carta carbone di quella titolare, e per questo verrà licenziato.

Riapparirà nell’orbita della nazionale nel 1994 in qualità di manager, accompagnando Mehrtens, Lomu e compagnia cantante alla Coppa del Mondo del 1995. Per anni racconterà che quella Nazionale non fu battuta dagli Springboks, ma da Suzie, cameriera sudafricana dell’hotel in cui erano alloggiati, entrata nel mito per aver, si dice, avvelenato acqua e cibo. E che se il match fosse stato programmato un giorno prima, forse, non ci sarebbero stati 15 neozelandesi in grado di scendere in campo. Ciò nonostante provate a chiedere a chiunque facesse parte di quella spedizione i suoi personali due cents di opinione: il Pino era il più diretto dei manager, in grado di dire ai suoi la verità, tutta la verità, nient’altro che la verità, soprattutto se le cose andavano come non si era sperato. I vari Mehrtens, Lomu e altri zitti e muti. Provate voi a contraddire il Pino, se avete avuto la fortuna di incrociare il vostro cammino con il suo, anche se per pochi metri, anche se per poche righe. Se ci avete vissuto a fianco, come le , 4700 anime sparse ma non disperse di Te Kuiti, 80 chilometri da Hamilton, Nuova Zelanda. No, non per paura di una eventuale replica alquanto piccata, non è questo. Non è tipo da reazioni scomposte.

Colin Meads se n’è andato il 20 agosto del 2017 a 81 anni, abbattuto da un unico avversario, subdolo e potente come solo un tumore al pancreas può essere. No, se siete persone con un po’ di buonsenso, una sana passione per il rugby e un minimo di raziocinio non andrete a replicare qualcosa a uno che su un campo si è dato nonostante ossa rotte e sangue colante come nel vostro splatter preferito. E nemmeno a un uomo che per anni ha continuato a restare umano, nella sua tenuta, tra pecore e alberi che non avranno mai l’onore di essere più forti di quel Pino, o di ricevere omaggi e pellegrinaggi nonostante la voglia di normalità lo abbia tenuto ancorato ad un paesino che, a prima vista, potreste benissimo scambiare con mille altri. Paese che ha messo cartelli, effigi con il suo volto che non prende prigionieri e che inneggia ad un solo sport e a una sola religione, quella che rimbalza strana.

Benvenuti a Meadsville, al secolo Te Kuiti, 4700 anime sparse ma non disperse, dove la caduta di un albero, quello più forte e rigoglioso, questa volta, ha fatto parecchio rumore.

Cristian Lovisetto – Anonima Piloni

 

Tutte le precedenti puntate di Anonima Piloni le trovate qui.

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