Dan Carter un saluto ai fan che è un manifesto del rugby e dello sport

Un messaggio a cuore aperto che esprime il senso più vero dello sport

Dan Carter All Blacks

Dan Carter All Blacks – ph. S. Pessina

Poche ore dopo che Dan Carter, icona degli All Blacks, ha annunciato il proprio ritiro dal rugby il sito The Players Tribune ha pubblicato un sentito ed emozionate messaggio a cuore aperto che lo stesso Carter ha scritto di suo pugno dedicandolo ai propri tifosi. “A message to my fan”, questo il titolo del lungo articolo, rappresenta a nostro avviso molto di più di un saluto, di un ringraziamento o di una manifestazione di amore per il rugby, ma un manifesto che chiunque si avvicini a questo (ed ogni altro) sport dovrebbe leggere e che, in alcuni estratti, andrebbe affisso negli spogliatoi e nelle clubhouse perché esprime il senso più vero del rugby e di quelle che devono essere le motivazioni di un atleta e di uno sportivo.

Proviamo a citarne i passi più significativi, ma consigliamo a chi mastica un po’ di inglese di leggere l’articolo integrale.

Il sogno di un bambino: giocare con gli All Blacks

“Prima di diventare qualcuno, ero un apassionato di rugby. Suppongo tuto sia cominciato quando avevo cinque anni e la Nuova Zelanda ha ospitato la prima Coppa del Mondo di rugby. Era il 1987, e anche se tanti ricordi di quell’età sono sfocati, quel torneo è ancora cristallino nella mia mente. Gli All Blacks hanno giocato la primissima partita del torneo contro l’Italia ad Auckland. Ed è stato durante quella partita (una vittoria degli All Blacks, naturalmente) che John Kirwan ha segnato una delle più grandi mete che abbia mai visto.”

Carter, dopo aver raccontato per intero lo svolgimento dell’azione, continua: “Non appena la partita è finita, uscii nel mio giardino cercando di imitare tutte i movimenti che aveva fatto in quell’azione. Ero solo un ragazzino, la palla era grande quasi quanto me, ma nella mia mente ero JK. Scattavo a tutta velocità, facendo uno slalom tra i placcatori e indossavo quella maglia iconica mentre appoggiavo la palla in meta con il pubblico immaginario che esultava. La Nuova Zelanda ha finito per vincere il Torneo, e ricordo ancora il momento in cui David Kirk, il capitano della squadra, ha alzato il trofeo. Quella scena ha dato forza ad un pensiero nella mia mente. In realtà non era tanto un pensiero quanto forse un sogno. Volevo che un giorno li ci fossi io.

Volevo essere un All Black. Volevo rappresentare il mio paese, anche se fosse stato per un solo cap.
Era molto giovane, ma in quel momento non avevo dubbi su cosa volessi nella mia vita. E sapevo che sarei stato disposto a fare tutto il necessario – a fare tutti i sacrifici del caso – per riuscirci.”

Il rapporto con i fan e l’amore per il rugby

Carter racconta poi di come abbia lavorato duramente e di come sia andato a vedere tutte le partite possibili e del fatto che sappia “cosa vuol dire desiderare di poter essere vicino a un giocatore che idolatri e forse, solo forse, trovare il coraggio di interagire con lui”. E continua: “Ed è per questo che, mentre mi preparo per un nuovo capitolo della mia vita, mi è sembrato giusto dire qualcosa ai fan – perché sono davvero ciò che ha reso questo viaggio così speciale.”

“Nel 2002, avevo 20 anni e non avevo ancora firmato un contratto da professionista. Giocavo per la mia provincia e facevo alcuni lavori part-time. Un giorno, mentre camminavo per Oxford Terrace a Christchurch, sono stato fermato da un uomo. Mi salutato, e poi ha iniziato a parlarmi come se ci conoscessimo piuttosto bene… era davvero curioso di sapere le mie opinioni e sembrava sapere molto su di me. Quindi, per tutto il tempo in cui abbiamo parlato, ho continuato a cercare di capire dove ci fossimo incontrati prima. Forse un vecchio insegnante? Questo ragazzo è un amico di mio padre? Abbiamo continuato a per parlare sul ciglio della strada per circa 20 minuti. Non appena ci siamo salutati e mi sono voltato, ho iniziato cercare di far mente locale per capire chi avrebbe potuto essere, ma non riuscivo a trovare un nome. E poi finalmente mi sono reso conto che quell’uomo non era affatto qualcuno che conoscevo. Era solo qualcuno che mi aveva visto giocare quel fine settimana. Non mentirò, una parte di me pensò che fosse un po’ strano. Avevo appena passato 20 minuti sul lato della strada a parlare con un passante che avevo finto di conoscere, solo per essere educato. Ma poi ho capito il rovescio della medaglia. Quest’uomo aveva impiegato 20 minuti della sua giornata per essere gentile e conversare con me, perché gli piaceva guardarmi giocare al gioco che amo. E ho capito che il motivo per cui ci siamo conosciuti era dovuto alla passione che condividevamo: il rugby.”

Il potere del rugby e dello sport

“È stato incredibile – prosegue Carter – mentre la mia carriera progrediva e sempre più fan hanno iniziato a interessarsi a me ho imparato molto sul potere dello sport e su quanto una partita e un risultato possano davvero avere un impatto sugli altri. Il più grande esempio di ciò l’ho vissuto nel 2011, quando abbiamo avuto un enorme terremoto a Christchurch. I nostri fan e la nostra community sono stati colpiti duramente e per molte persone il rugby è diventato un modo per sfuggire brevemente al trauma che stavano attraversando. Non sono mai stato in una squadra che ha giocato più duro di quella: volevamo dare a quelle persone che stavano soffrendo qualcosa per cui tifare e sentirsi positivi.“

L’esordio di Dan Carter con gli All Blacks: un’esperienza extra-corporale

La mia prima presenza con gli All Blacks è stata contro il Galles nel 2003. Avevo solo 21 anni, fondamentalmente ero ancora un ragazzino, e una delle cose che ricordo di più era essere seduto prima della partita in spogliatoio, guardandomi intorno con gli occhi sgranati. Quei poster che hanno coperto le pareti della mia camera avevano preso vita. Tutti i giocatori che mi circondavano erano ragazzi che avevo adorato crescendo. Onestamente, mi è sembrata un’esperienza extra-corporale. Certo, mi stavo concentrando per la partita, ma ero anche stupito di essere seduto lì tra quelle leggende. Tutto ciò è continuato in campo quando ho sentito il ruggito della folla e abbiamo fatto l’haka. Era tutto surreale. Ma poi, durante quella partita, è successo qualcosa. E’ scattato un interruttore. E ho smesso di pensare a quanto fossi felice di essere lì e che il sogno fosse ottenere un cap per gli All Blacks. Invece, quello a cui continuavo a pensare era che volevo farlo di nuovo. E di nuovo. E di nuovo ancora.“

La più grande speranza

Ho sempre saputo che la mia carriera non sarebbe durata per sempre. Questo gioco è molto più grande di qualsiasi giocatore. In definitiva, siamo solo custodi e possiamo solo sperare di lasciare il nostro sport migliore di come l’abbiamo trovato. La mia più grande speranza è che forse, là fuori, ci sia stata almeno una persona a cui, guardandomi giocare, si sia accesa una scintilla. E forse quella scintilla l’abbia motivata a dedicarsi al proprio sogno impossibile. E forse, se ci mettesse tutto il cuore e si concentrasse, potrebbe anche imparare che dopotutto i sogni impossibili, a quanto pare, non sono così impossibili.

Leggi anche l’articolo di Anonima Piloni: “Ho visto Dio. Era travestito da Dan Carter”

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