Monumenti: Willie John McBride

Capitano leggendario dei British and Irish Lions del 1974, cominciò a giocare a 17 anni: “Ero un ragazzone, mi dissero che con me avremmo giocato in 15”

ph. Albert Bridge

Che la fascia di capitano la porti al braccio il numero 7 è facilmente comprensibile, è un esempio per la natura del ruolo. Che il leader della squadra sia il numero 9 anche: abituato com’è a cacciare urlacci per far muovere gli otto energumeni che comanda, già che c’è ne distribuisce un po’ in giro e il gioco è fatto. Il numero 10, poi, è abituato a gestire e comandare il gioco, dandogli un naturale potere che lo rende adatto alla scelta per il capitanato. Si capisce, al limite, anche l’inclinazione di un numero 15 a poter essere un buon capitano, tanto responsabile nell’ultimo placcaggio e nei palloni alti che riflette la propria responsabilità anche sul piano morale. Ma il motivo per cui nel gioco della palla ovale sia così consueto che gli sgraziati, dinoccolati, giganteschi Polifemo della seconda linea diventino dei pastori di giocatori rimane uno dei grandi misteri dello sport.

Eppure è innegabile, ci dev’essere qualcosa di correlato alla posizione: Martin Johnson, Paul O’Connell, Bill Beaumont, Fabien Pelous, John Eales, Victor Matfield, Colin Meads e l’elenco potrebbe continuare. Continua, anzi, e si chiude con quello che probabilmente possiamo mettere all’apice di questo archetipo di giocatore, William James McBride, Commander of the British Empire per i servizi resi al gioco del rugby, da tutti meglio conosciuto come Willie John.

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Quando dici Willie John McBride, lo vedi subito con la maglia rossa dei Lions e la fasciatura alle orecchie, piuttosto che con quella verde dell’Irlanda e la fasciatura alle orecchie. Cinque tour, record imbattuto di longevità per la selezione delle home unions. Niente male per uno che a 17 anni il campo ancora non lo aveva neanche visto: “Arrivano e mi dicono: sei un ragazzone. Se vieni a giocare, siamo in 15. Non avevo idea di come si giocasse, ma ero grosso e non sembrava un gran problema, potevo scrollarmi la gente di dosso.”

Ballymena Rugby Club, Irlanda del Nord. Lì cresce la leggenda. Una leggenda che andrà avanti per una ventina d’anni, giocando per Ulster a livello di club. Nel 1962 esordisce per l’Irlanda e nello stesso anno viene chiamato per il suo primo tour con i British & Irish Lions in Sudafrica, dove i britannici vengono presi a calci dai locali: 3-0 la serie, su quattro partite disputate, con un pareggio nella prima partita.

Nel 1966 i Lions vanno in Australia, Nuova Zelanda e Canada. Battono canguri e foglie d’acero, vengono strapazzati 4-0 dai kiwi. Nel 1968 si torna in Sudafrica: i Lions vincono tutti i match contro le province, ma contro il Sudafrica finisce come 4 anni prima, e in più il numero 10 gallese Barry John finisce per rompersi l’osso del collo nel primo test a causa di un violento placcaggio alto subito da un avversario. Giusto per capire come andavano le cose a quei tempi dalle parti del Capo di Buona Speranza e dintorni.

Barry John, comunque, non era uno qualunque: incominciarono a chiamarlo the King tre anni dopo, quando mise in mostra il meglio di sé stesso nel tour dei Lions in Nuova Zelanda, finalmente vinto dagli uomini in rosso. Willie John McBride, in campo per tutti e tre i test, faceva il lavoro sporco in un pack dove rappresentati di tutte e quattro le componenti della selezione avevano fondamentalmente il compito di rendere più facile la vita ai fenomeni gallesi del reparto arretrato.

Un sistema che ebbe successo anche tre anni dopo, nel 1974, nel tour forse più famoso della storia dei Lions, quello che avrebbe consacrato alla storia McBride, capitano monumentale. Uno che di Lions se ne intende, Ian McGeechan, nel 1974, in Sudafrica, c’era: “Penso ancora a lui come al mio capitano – ha raccontato al giorno d’oggi – Willie John è stato probabilmente il più grande leader naturale del rugby britannico e irlandese negli anni Settanta, quando era il migliore del mondo. Era qualcuno che dava ispirazione ai giocatori, portando il rugby dei Lions su un altro livello.”

Un attestato di stima favoloso che contrasta un po’ con le controversie di quel tour. I Lions sapevano che per potersela giocare contro i sudafricani in Sudafrica, bisognava per prima cosa non farsi mettere sotto dalle intimidazioni fisiche.

Prima del primo test: riunione giocatori. Willie John presiede, dice che fra gli avversari ci sono un paio di elementi dal pugno facile, che potrebbero voler mettere fuori gioco qualcuno dei giocatori chiave dei suoi: “Spero che non succeda – dice – ma se succede dobbiamo essere pronti a reagire. E se succede, ci siamo dentro tutti. Durerà pochi secondi, e gli insegneremo la lezione che con noi non si scherza.”

Funziona in maniera piuttosto semplice: se uno dei Lions viene colpito, rappresaglia immediata di tutta la squadra. L’arbitro non potrà espellere tutti. Codice per la giocata: 999, come il numero per l’emergenza.

Terzo test, sul 2-0 per i Lions al Boet Erasmus di Port Elizabeth. Dopo una mezz’ora di gioco, placcaggio alto, violento, in ritardo su Gareth Edwards, il mediano di mischia, dopo un passaggio da rimessa laterale. Willie John arriva giusto al 99, non fa in tempo a scandire l’ultimo nove che è già bagarre generale, come dicono delicatamente in Francia.

“Era il primo tempo ed eravamo sotto una gran pressione – ricorda JPR Williams, l’estremo – Non ne sono particolarmente orgoglioso, ma ricordo di essere scattato e aver corso 50 metri per colpire il giocatore più grosso della loro seconda linea, Johannes van Heerden. Mentre andavo verso di lui, c’erano due giocatori che scappavano dall’altra parte, Phil Bennett e Andy Irvine. Almeno mi ero preso il più grosso.”

“L’ho incontrato sul treno qualche anno fa in Sudafrica, mi è venuto incontro e mi ha fatto i complimenti per quella volta. Ha detto che è stato il miglior pugno che si è preso in tutta la vita.”

Al di là delle celebre, famigerata 99 call, Willie John McBride è stato l’Atlante su cui si sono poggiate le avventure di quella squadra. Il parafulmine per una squadra di fenomeni che, finite le partite, non avevano particolare attenzione alla moderazione dei festeggiamenti. Come quella volta che in mutande e pipa, McBride convinse il direttore dell’hotel dove erano alloggiati che non sarebbe stata una buona idea chiamare la polizia per denunciare la devastazione della hall dell’albergo.

Quel tour lo consacrò non solo come uno dei migliori giocatori della sua generazione, ma come uno dei più grandi leader della palla ovale: una seconda linea forse non particolarmente dotata tecnicamente, ma con la forza, la resistenza e la volontà di una quercia secolare.

Nel 1975 arrivò il momento di ritirarsi dalle scene, a 35 anni e con così tanti chilometri sulle spalle. In oltre 60 presenze con la nazionale irlandese, McBride non aveva mai segnato una meta. Fu davanti a 50mila spettatori, al Lansdowne Road di Dublino, nella quarta giornata del Cinque Nazioni, alla sua ultima partita casalinga con la maglia della nazionale, nei minuti finali dell’incontro contro la Francia, come fosse una storia perfetta i cui dettagli vanno a posto in maniera quasi magica, che il ragazzone di Ballymena superò per la prima volta la linea bianca, facendo brillare per l’ultima volta la sua stella nella luce del tramonto.

Willie John McBride compirà 80 anni il prossimo giugno. In carriera ha allenato l’Irlanda ed è stato manager dei Lions nel 1983, in Nuova Zelanda. Quando l’allora IRB ha aperto la sua Hall of Fame, è stato uno dei primi ad esservi introdotto. Nel 2004 la rivista Rugby World lo ha nominato Rugby Personality of the Century.

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