Pacific Islanders: storia e ricordi dei guerrieri

Uno sguardo alla selezione che ha unito Fiji, Samoa e Tonga per sfidare il meglio di ovalia

Sebastiano Pessina ph.

Il rugby ha avuto squadre mitiche, formazioni che hanno scritto pagine di storia con grandi vittorie, team che sono magari riusciti ad aprire o sfondare porte che prima di loro sembravano chiuse irrimediabilmente a doppia mandata. Ci sono state però anche delle selezioni che hanno scardinato concetti che sembrano scolpiti nella pietra, riuscendo a far divertire gli appassionati in un modo semplicemente unico. Capofila di queste “storture” sono senza dubbio i Barbiarians, ultracentenari nomadi ovali che, pur senza una sede ufficiale, hanno sfidato e battuto tante grandi squadre nella loro storia. Tra le selezioni che hanno calcato il rettangolo ovale ce n’è stata una che, e questo si può dire con assoluta certezza, che è sembrata quasi un sogno bagnato di tanti, nonostante abbia giocato solamente nove partite ufficiali. Quante volte gli appassionati di ovalia hanno strabuzzato gli occhi davanti alle prestazioni delle squadre delle isole del Pacifico? Quanti hanno gridato di stupore per una magia fijana o per un duro placcaggio samoano? E che dire dei tongani, che pur essendo pochissimi sono riusciti a creare alcuni dei più grandi giocatori della storia? È difficile trovare un tifoso che prima del 2004 non si fosse mai chiesto “Chissà cosa potrebbe succedere se questi bestioni dovessero un giorno mettersi insieme al posto che giocare per tre nazionali diverse…”. Ed è proprio quello che successe, seppur per poche volte, tra il 2004 e il 2008, quando ovalia conobbe i Pacific Islanders, che di Pacifico avevano solo l’area geografica di provenienza, e che rappresentarono un bell’esperimento purtroppo ora chiuso nel dimenticatoio.

L’idea originale
Ma da quando si iniziò a parlare concretamente di Pacific Islanders? L’anno che fece da spartiacque fu il 2002, quando si iniziò a creare la P.I.R.A., acronimo di Pacific Islands Rugby Alliance, una struttura organizzata che mettesse insieme le union delle Isole Fiji, di Samoa, di Tonga e anche delle piccole Niue e Isole Cook, sperduti staterelli del Pacifico che comunque hanno il rugby che scorre forte nelle loro vene (in quanti sanno che le Isole Cook hanno affrontato, e battuto, l’Italia nel 1980?). Cinque nazioni (de facto), per una sola squadra, che alla fine comunque verrà rappresentata solamente dalle tre sorelle maggiori, fucine in grado di scaricare continuamente nuovi talenti nel panorama rugbystico mondiale. Gli scopi principali dietro quest’idea erano sostanzialmente due, andando incontro a tante urla lanciate da quelle parti del mondo per provare a sentirsi meno piccoli: raccogliere soldi da destinare allo sviluppo del rugby e contemporaneamente alle attività delle unions, e offrire una vetrina importante, giocando contro squadre tier one con costanza, cosa che spesso per loro è complicata, non disputando in maniera continuativa in un torneo di livello come il 6 Nazioni o il Rugby Championship.

I primi avversari? Belli facili…
L’esordio dei Pacific Islanders non è che fu proprio accondiscendente. Nell’estate del 2004 infatti i pacifici organizzarono il loro primo tour della storia, che come avversarie prevedeva nell’ordine Australia, Nuova Zelanda e Sudafrica. Dopo due warm up contro una selezione del Queensland (battuta 29-48) e i Warathas (schiantati 21-68) arriva il momento del debutto ufficiale. Prima però la meta numero uno della storia degli Islanders, segnata da Norman Ligairi:

3 luglio 2004, Adelaide Oval, avversari i Wallabies. Prima considerazione da fare: nonostante fossero una novità sul panorama di ovalia, gli Islanders vennero presi subito molto sul serio dalle avversarie, cosa che non sempre è accaduta quando le “pacifiche” giocavano singolarmente. C’erano dunque Mortlock, Giteau, Tuqiri, Larkhan, Gregan e molti altri dei vice-Campioni del Mondo impegnati in quella “strana” partita. Per la prima, si scelse una linea di trequarti composta interamente da fijani e samoani, e in mischia una bella spolverata di tongani per dare peso (e che peso con la prima linea Filise-Lutui-Tonga’uiha). Nonostante le cinque mete subite, gli Islanders rimasero in partita praticamente fino al termine, andando a segnare due volte con Lauaki e Bobo. Più che il 29-14 (cliccando su questo link il video completo della sfida con gli Aussies) finale a far discutere fu la fisicità messa in campo dagli isolani, giudicata eccessiva dallo staff aussies, che vide gli infortuni di Gregan (placcato duro da Mapusua che verrà squalificato), Roff e Mortlock. Una battaglia durissima, come non si vedeva da tempo. Una settimana dopo ad Albany era il turno degli All Blacks di ospitare questa nuova selezione, e ancora una volta venne schierato un XV decisamente di livello da parte dei neozelandesi. I Pacific Islanders effettuarono invece diversi cambi rispetto a una settimana prima, denotando comunque una profondità importante e buttando in campo giocatori di enorme talento come Rabeni, Lima, Bai, Sivivatu (che dopo questa tournée si guadagnerà la convocazione proprio con i neri), Koyamaibole, Lauaki e Afeaki. Questa volta la gara ebbe un filo in meno di pepe, e sopratutto di pathos: con Dan Carter come nocchiere i neozelandesi giocarono una partita estremamente solida marcando sei volte, contro le “sole” quattro dei pacifici. Una doppietta di Sivivatu, Rabeni e Lauaki riuscono a portare il risultato finale sul 41-26, denotando ancora una volta come questa squadra avesse davvero le possibilità di fare bene e regalare spettacolo, sfidando praticamente chiunque. La video-sintesi della sfida di Albany:

Per l’ultimo match, il 17 luglio, si tornò in Australia (a Gosford) quando ad attendere gli Islanders c’erano gli Springoboks. Gara decisamente finisca, e condizionata dall’indisciplina “ospite”, con Montgomery come sempre implacabile dalla piazzola a condizionare il 38-24 finale. Per i Pacific Islanders altra doppietta di Sivivatu, ormai lanciato nell’olimpo di ovalia, ancora a segno Lauaki e in meta anche il fijano Sireli Bobo, che da li a breve si sarebbe trasferito alla Rugby Parma.

Il celtic tour del 2006
Dopo il concordato anno di pausa, gli Islanders tornarono operativi nel 2006, quando sembrava dovessero giocare sia nell’estate che nell’autunno australe. Sembrava appunto, perché i match previsti a giugno contro Italia e Nuova Zelanda non ebbero luogo, mentre fu confermata la trasferta britannica contro Galles, Scozia e Irlanda per il mese di novembre. Da notare però che fu introdotta una sorta di “clausola”: visto che come detto Sivivatu, ma anche Lauaki, dopo il tour del 2004 passarono alla causa della Nuova Zelanda, i convocati dovevano avere almeno una presenza nella nazionale maggiore del loro paese d’origine, per evitare altri furti di quel genere. La prima sfida fu quella col Galles dell’11 novembre, con oltre 50.000 spettatori sulle tribune del Millennium Stadium a dimostrare come gli Islanders fossero attraenti per il grande pubblico. Contro i Dragoni però vennero fuori tutti i logici problemi che derivano dal fatto di stare insieme solo ogni due anni, e l’inizio fu un incubo, dato che il 24-0 del primo tempo indirizzò la gara. I pacifici comunque, da veri gladiatori non mollarono e riuscirono a chiudere sul 38-20, marcando con Mapusua, Ratovou e Va’a, aggiungendoci due calci di Tusi Pisi. Anche una settimana più tardi, a Murrayfield contro la Scozia, fu il primo tempo a condannare gli isolani: 31-5 dopo 40 minuti, contro una squadra comunque in palla, era troppo. Il secondo tempo vide ancora una volta la reazione degli ospiti, che riuscirono a chiudere sul 34-22, dando battaglia fino all’80esimo e salvando una volta di più l’onore nonostante la prima vittoria continuava a tardare. La spettacolare danza di guerra eseguita a Murrayfield davanti agli scozzesi:

L’ultima sfida fu però un incubo, ma a suo modo storica. Il 26 novembre 2006 infatti l’Irlanda giocava per l’ultima volta nel vecchio Lansodwne Road, e di fronte agli oltre 40.000 tifosi verdi triturò letteralmente i Pacific Islanders. 61-17 il finale, in una sfida che non ebbe mai storia e che chiuse per sempre uno dei templi mondiali della disciplina.

The last dance
Nel 2008 gli Islanders tornarono in campo per le tre sfide autunnali, quelle che sulla carta non dovevano essere le ultime ma che alla fine tali furono. Il calendario ancora una volta non prevedeva sconti, o quasi: Inghilterra, Francia e Italia le avversarie. La squadra era composta per la maggior parte da giocatori provenienti da Premiership e Top14 con una bella spruzzata di (redditizio) Giappone, e un certo equilibrio tra le tre nazionali che la componevano. Team manager di quel tour era Sitiveni Rabuka, all’epoca primo ministro delle Fiji, nonché autore di due colpi di stato: come si è recentemente visto con il caso World Rugby, non è che vada sempre tutto liscio in quelle zone del mondo. La prima sfida all’Inghilterra, esordio di Martin Johnson sulla panchina dei bianchi, in un Twickenham bello pieno con oltre 55mila presenti sulle tribune. Questa volta i pacifici non furono schiacciati nel primo tempo, chiuso sul 20-10 per i padroni di casa, ma a fare la differenza furono i secondi 40 minuti. Gli inglesi si dimostrarono più disciplinati e concreti, marcando con i carneadi Kennedy e Mears, e trovando la seconda meta personale di Sackey. Per gli ospiti la sola meta di Rabeni e i calci di Hola e Bai non furono sufficienti, e il tabellone finale recitò 39-13 per gli inglesi. Rivediamo gli highlights della sfida inglese:

Una settimana più tardi, il 15 novembre, trasferimento in Francia per sfidare i blues nell’atipica località di Montbéilard, casa della formazione di calcio del Sochaux ma poco abituata a vedere grande rugby. Furono comunque 20.000 gli spettatori sulle tribune per un match che globalmente ebbe lo stesso svolgimento di quello di Twickenham. Primo tempo quasi alla pari (17-12 per la Francia) prima del cambio di passo e della fuga nel secondo periodo da parte della squadra favorita. Da dire anche che il rosso a Nalaga spianò al strada ai francesi, che col piede di Skrela aprirono le crepe per il 42-17 finale. Si arriva così al 22 novembre 2008, quando allo Stadio Giglio di Reggio Emilia furono in 13,595 i paganti per vedere gli azzurri impegnati contro i colossi del Pacifico. Quel pomeriggio, per la “prima” dell’Italia a Reggio, Nick Mallet schierò un XV azzurro decisamente “titolareggiante” con giocatori come Masi, Robertson, Garcia, i fratelli Bergamasco, Parisse, Bortolami, Nieto e Ghiraldini. I primi 20 minuti video il match sui binari dell’equilibrio con gli ospiti avanti 8-10, ma a fare la differenza fu la seconda metà del tempo d’apertura. Le mete di Delasau e Ratouvu scavarono il solco fino al 10-22 dell’intervallo, ampliato poi dal calcio di Baikeinuku in apertura di ripresa. Infruttuosi i tentativi italiani di rifarsi sotto, eccezion fatta per la meta di Bergamauro che al 64-esimo permise all’Italia di portarsi sul 17-25, che fu anche il punteggio finale. Dopo nove partite ufficiali, e otto sconfitte, arrivava così la prima vittoria dei Pacific Islanders, che riuscirono a ottenere il loro primo “scalpo” di una nazione del tier one e a dimostrarsi degni dell’interesse di ovalia. Ecco le immagini della sfida tra azzurri e Pacific Islanders:

Il futuro che non c’è
Un anno dopo però, nell’estate 2009, la federazione samoana informò le altre due “sorelle” che considerava l’esperimento Pacific Islanders ormai chiuso. I motivi? Secondo la Samoan Rugby Union la selezione non ha prodotto vantaggi finanziari sufficienti, e inoltre ci si è messo anche lo zampino di World Rugby. Il rivisitato calendario internazionali dava infatti spazio solo ogni quattro anni (e non più due) ai Pacific Islanders, un periodo troppo ampio per generare ricavi ritenuti soddisfacenti. Al momento dunque quella contro l’Italia è stata l’ultima partita, nonché la prima vittoria, della selezione pacifica. Questo nonostante ci siano state diverse speculazioni su un possibile loro ritorno: da un posto nel Super Rugby a una sfida contro i Lions nel loro tour del 2017, ma come sappiamo nessuna di queste ipotesi si è poi tramutata in realtà. Per il momento rappresentano solo un ricordo, doloroso (per i fisici avversari) ma divertente (per chi li ha visti giocare).

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