80° minuto: la Rugby World Cup dell’Italia vista con gli occhi di Mattia Bellini

Intervista all’ala che nella rassegna iridata giapponese è stato uno dei migliori del gruppo azzurro

Ph. Sebastiano Pessina

Nuova puntata della rubrica dal titolo “80° minuto” curata da Flavio “Fuser” Fogliani, Cristiano Gobbi, Luca Mammoli e Nicola Riccetti di Italrugbystats, una pagina che parla del rugby italiano attraverso numeri e statistiche.
“80° minuto” è pensata come un approfondimento che utilizza i valori matematici espressi in campo per interpretare la storia della partita attraverso i numeri che la caratterizzano. Nella rubrica di oggi Mattia Bellini risponde alle domande di Italrugbystats.

Per prima cosa vorremmo chiederti una tua valutazione della RWC: due vittorie solide contro Namibia e Canada, la mancata convocazione per il Sudafrica e la partita annullata contro la Nuova Zelanda. Tu chiudi con 2 mete (secondo Italiano di sempre a pari merito con altri giocatori negli anni), 12 corse, 160 metri corsi, 7 clean breaks, 4 difensori battuti, sei contento del tuo Mondiale? Cosa cambieresti?
“Sono soddisfatto delle mie prestazioni: ovviamente ho avuto il rammarico di non esser sceso in campo contro il Sudafrica, però non sta a noi decidere queste cose. Mi era sembrato di aver preso parte a buone prestazioni di squadra, anche se avevo cominciato a capire ad inizio settimana che si sarebbe potuto andare verso la formazione che poi è scesa in campo, ma come detto non si sa mai fino all’ultimo cosa giri nella testa degli allenatori.
Se avessi la possibilità, però, non cambierei tanto la formazione quanto il risultato col Sudafrica e soprattutto la direzione del tifone: io non sono ancora mai riuscito a giocare contro gli All Blacks e quindi ho sentito questo traguardo molto vicino, il che fa ancora più rabbia. Anche queste sono cose che noi giocatori non possiamo controllare, ma ovviamente hanno un grosso impatto sulla nostra sfera emotiva: penso anche a Ghiraldini che sarebbe dovuto rientrare e a tutti quelli che come me non avevano mai sfidato la Nuova Zelanda, oppure a ragazzi come Fischietti e Zilocchi che hanno fatto il viaggio apposta per quell’occasione. I primi due giorni addirittura non ci credevo, tanto che per me è stato il boccone più amaro da mandare giù di tutta la spedizione mondiale, anche più della sfida col Sudafrica”.

Nel match partita d’esordio con la Namibia, sei entrato in campo, come il resto della squadra, in modo un po’ contratto: avanzando nel 57% degli attacchi e creando un solo break. Il work rate anche è buono fino al punto di bonus (EPM = .33) mentre dopo scende decisamente. Nella partita contro il Canada, invece, sei uscito dalla panchina mettendo in campo una prestazione notevole, soprattutto per intensità e work rate (EPM = .49, primo trequarti e 7° assoluto). Sei avanzato nell’80% degli attacchi (praticamente tutti tranne un pick & go da raggruppamento), battendo due difensori e facendo due clean break, uno largo sulla fascia, uno in mezzo al campo.
Sei d’accordo con quanto detto da Federico Ruzza, che nella prima gara ci sia stato un problema di approccio mentale alla gara – dato dalla voglia di performare bene – mentre nella seconda eravate più liberi?
“L’emozione è inevitabile, ovviamente, ma a questo livello non può essere una scusa per una prestazione. A livello personale posso dirti che, inutile negarlo, all’esordio ero emozionato, però una volta iniziata la gara, che poi abbia performato o meno, ero comunque concentrato sulla partita.
Con la Namibia è stata anche una partita strana, loro hanno segnato subito alla prima occasione, mentre noi abbiamo sprecato molto, soprattutto all’inizio. Per me questa sensazione di “contrazione” che poteva trasparire in TV è stata data magari più che da fattori emotivi da una sorta di frustrazione perché non riuscivamo a fare quello che avevamo provato per piccoli errori tecnici individuali.
Contro il Canada, invece siamo arrivati alla partita sullo slancio della prima vittoria e, segnando subito, si è creato un clima di fiducia sia tra noi giocatori sia, a livello di percezione, da parte dei tifosi. Siamo stati bravi a mantenerlo fino alla fine e a tratti stiamo stati anche fortunati perché loro hanno fatto molti errori, un po’ come era capitato a noi nel primo match.
Per quanto riguarda il Sudafrica, non essendo stato in campo, posso darvi solo un parere “esterno”: è una squadra davvero solida, come dimostra l’approdo in finale. Noi abbiamo fatto fatica dal punto di vista fisico e dell’impatto e questo ti preclude tanti discorsi tattici perché non avendo mai palloni avanzanti non hai mai modo di andare al largo o comunque di variare il tuo attacco per creare loro qualche dubbio”.

Un aspetto del tuo gioco che avevi messo in mostra anche alle Zebre, nel Pro14, è quello di avere una buona manualità e visione che ti permette di avere una distribuzione efficace. Nelle due gare che hai giocato da un tuo passaggio vengono creati 0.66 attacchi avanzanti contro la Namibia e 0.75 attacchi avanzanti contro il Canada.
E’ un discorso di sensibilità individuale o lo staff azzurro ti chiede ti utilizzare questa tua caratteristica per variare il gioco offensivo?
“In nazionale mi viene chiesto un lavoro leggermente differente rispetto a quello che svolgo nelle Zebre. Con Bradley abbiamo un gioco che varia molto e passa sia per l’1-3-3-1 sia per il 2-4-2 e anche per tutti gli 8 nella zona centrale, soprattutto nei 22 avversari. In nazionale, invece, giochiamo principalmente con quest’ultimo schema e di conseguenza il lavoro che viene richiesto alle ali è più incentrato sulla copertura della profondità e sulla gestione delle palle alte.
Ovviamente, nella dinamica di una partita, ci si trova in situazioni che vanno anche più o meno interpretate, per questo credo che in questo contesto, come in mille altri, una certa influenza della sensibilità individuale sia inevitabile”.

Contro il Canada avresti potuto segnare facilmente una ulteriore meta, che ti avrebbe catapultato al primo posto ex-aequo nella storia dei marcatori azzurri al mondiale, invece hai deciso di allargare l’ovale a Minozzi.
Hai pensato a questo gesto, oppure è stato la naturale evoluzione del percorso riabilitativo che vi ha visti tornare a giocare insieme proprio per questo mondiale?
“Mi hanno chiamato per dirmi questa cosa (ride, ndr). Il primo è stato mio padre che mi ha chiesto perché non ci abbia creduto, però capita spesso di pensare alla soluzione più semplice possibile. Penso anche alla meta che ho segnato al Sei nazioni a Cardiff e che poteva tranquillamente segnare Federico (Ruzza, ndr), allo stesso modo qua, tra una meta mia sicura al 50% e una di Matteo (Minozzi, ndr) invece certa al 100% ho preferito la seconda soluzione. Certo, tre mete alla Coppa del Mondo sarebbero state un sogno, però Matteo è un carissimo amico e mi ha fatto molto piacere poter esultare insieme a lui in una rassegna così prestigiosa”

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