Monumentale: frammenti di Alun-Wyn Jones

Piccola, significativa raccolta di momenti iconici del capitano e simbolo del Galles del Grande Slam

ph. Action Images via Reuters/Peter Cziborra

Al numero 11 di Saint David’s Way a Cardiff c’è un grande centro commerciale. Fra i negozi di vestiti, i fast food e le scarpe di marca si staglia un figura di bronzo: è la statua di Sir Gareth Edwards, il mediano di mischia del leggendario Galles degli anni Settanta, squadra amata da tutti e considerata la più forte mai vista.

Chissà se il Sei Nazioni 2019 farà cambiare idea agli abitanti di quel piccolo, orgoglioso paese che si risveglia dopo un fine settimana di festeggiamenti deliranti. Chissà se costruiranno una statua per Alun-Wyn Jones, il capitano e il simbolo di questo Galles da leggenda, giocatore forse meno appariscente di Sir Edwards ma di altrettanta rilevanza per il gioco tutto. E, si sa, in quelle terre di pascoli e miniere, di lavoro duro se ne intendono: quello svolto in campo dal capitano non passa di certo inosservato.

Nella palla ovale, però, non contano soltanto gli ottanta minuti in cui si vestono maglietta e pantaloncini, calzettoni e tacchetti. E se la partita di sabato è stata una consacrazione per questi Dragoni dalle inedite quattordici vittorie consecutive, ai margini della stessa c’è stato spazio per un’ulteriore ascesa nell’Olimpo dei grandi capitani del Galles per il giocatore in maglia numero 5. In diversi, brevi momenti Alun-Wyn Jones è stato immortalato come il leader e il monumento vivente che è per questa squadra.

Piove al Principality Stadium, fu Millennium, cattedrale ovale del rugby gallese. Scende una pioggia fradicia e fredda, tagliente, sui giocatori pronti a giocarsi il terzo Grande Slam dell’era Gatland. Undici anni prima il tetto era chiuso, l’aria ugualmente umida quando la Francia cadde sotto i colpi di Shane e Martyn Williams. Alun-Wyn Jones è l’unico superstite di quel gruppo storico e di dibattiti su quel tetto dello stadio, aperto o chiuso, ne ha visti passare un bel po’.

A chi gliene ha chiesto conto prima della partita, ha risposto di non vestire abbastanza spesso giacca e cravatta per occuparsi di questi affari. D’altronde, sono semplicemente fatti che spostano l’attenzione dalla verità: che si gioca in quindici contro quindici, nelle stesse condizioni, e spesso vince chi ha più testa e cuore degli altri, in una combinazione variabile dei due elementi.

E’ facile no? Andiamo là fuori orgogliosi, portiamo in campo chi siamo e da dove veniamo. Gli altri lo seguono, quadrati. Nelle sue parole c’è umiltà e convinzione: “Cosa posso dire a questi ragazzi dopo che li ho visti impegnarsi e crescere per otto, nove settimane?”. E’ tutto nell’orgoglio della propria identità, è il riassunto della sua stessa carriera, lui nato e cresciuto a Swansea, dove ha sempre giocato.

Non tutti i grandi giocatori divengono grandi commentatori, anzi. Qualcuno però ci riesce, tipo Greenwood, di nome Will, di mestiere centro campione del mondo nel 2003. A lui va reso il merito di aver detto la sua sul Telegraph di venerdì, prima della partita: “[Alun-Wyn Jones] è il miglior giocatore che l’emisfero nord abbia prodotto nel ventunesimo secolo? Non lo so, ma dev’essere preso in considerazione.”

“Prima di tutto, e io ho giocato sotto alcuni dei più grandi dei miei tempi, è l’epitome di tutto ciò che si vuole da un capitano. E’ duro. Non tollera discussioni. E’ il tipo di persona che vorresti ti guidasse in battaglia. O che ti proteggesse durante. Se fosse vissuto ai tempi dei romani, credo che sarebbe stato il capo della Guardia Pretoriana, i veterani scelti dell’esercito romano che formavano la guardia personale di Cesare. Nodoso, anziano, vagamente calvo. Uno con cui non scherzi.”

Ma anche uno di quei leader che continui a seguire per adorazione, perché sai che, comunque, lui c’è. E lo ha dimostrato continuativamente lungo una carriera da 134 caps internazionali. Nel 2013, al tour dei Lions in Australia, il capitano Sam Warburton si fa male prima del terzo e decisivo test. Warren Gatland decide di tenere in tribuna Brian O’Driscoll, per motivi tecnici. Prima della partita, la sala stampa sobbolle come una peperonata tenuta a fuoco basso: gli addetti ai lavori si chiedono che succederà, l’incertezza domina l’ambiente. Almeno fino a che non arriva Alun-Wyn Jones, l’incaricato di portare la fascia al braccio. La conferenza stampa è praticamente una tranquilla ma ferma dichiarazione: ci sono qua io.

Non è poi così vecchio, Alun-Wyn Jones. Compirà 34 anni a settembre, ma l’aspetto, il carattere, la carriera e questo rugby così devastante danno l’impressione che sia davvero un venerabile veterano, sul campo da sempre.
E lì, vicino al campo, eroe solitario che ammira il proprio più recente successo con una punta di malinconia à la Raymond Chandler, ce lo regala uno degli steward dello stadio, in uno scatto trafugato di fretta.

Nella pancia dello stadio, negli spogliatoi, infuriano i festeggiamenti. Fuori, mentre cade ancora quella pioggia fredda e tagliente e gli addetti provvedono alle pulizie del caso, Alun-Wyn Jones siede solo sui posti più vicini al bordo del campo, la 5 ancora sulle spalle. Appena dietro di sé, il Grande Slam. Davanti, la Coppa del Mondo e un contratto con una squadra, gli Ospreys a cui ha dato 233 presenze, sulla cui esistenza è calata una lunga ombra. Uno scatto che è un simbolo, e insieme agli altri pezzi di questa piccola raccolta costruisce un mosaico esemplare di cos’è diventato, oltre a quell’immenso giocatore che è in campo, Alun-Wyn Jones, monumento.

Lorenzo Calamai

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