Una vita per la formazione: intervista a Pierre Villepreux

L’ex allenatore azzurro ci ha parlato delle problematiche legate allo sviluppo dei giovani, con uno sguardo anche sull’Italia

Pierre Villepreux nel 1999 (ph. Stuart Franklin/Action Images)

Se Pierre Villepreux avesse bisogno di una presentazione in poche righe, si potrebbe riassumere così: 34 caps con la Nazionale francese, 4 volte Barbarian, 2 volte vincitore del V Nazioni e 1 Grand Chelem da giocatore. Da allenatore: 2 volte vincitore del Grand Chelem, finalista della Rugby World Cup nel 1999 alla guida della Nazionale francese; 3 volte campione di Francia con lo Stade Toulousain; campione italiano con la Benetton Treviso nel 1991. E allenatore della Nazionale Italiana dal 1978 al 1981.

Una vita dedicata alla formazione, in Francia, a Tahiti, in Italia, presso l’IRB (oggi World Rugby), e negli ultimi anni con Sergio Zorzi e la sua Associazione Akka, di cui è stato recentemente ospite insieme a Marius Mitrea (l’intervista che leggerete, invece, è stata realizzata qualche settimana fa). Praticamente ovunque si parli di sviluppare il rugby, Pierre Villepreux è presente.

Mi ero già avvicinato al mondo di Pierre Villepreux nel 2015, mentre camminavo tra i corridoi del Liceo Jolimont, sede del pole espoir di Tolosa. Lui ha contribuito a organizzarlo subito dopo l’esperienza con la nazionale italiana. Ci sono passato in punta di piedi 35 anni dopo, in preda ad un misto di emozione e timore reverenziale, mentre cercavo di capire come funzionasse il sistema di formazione dei giovani giocatori in Francia. Dal pole espoir sono passati Pelous, Ntamack e Michalak, per citare solo tre grandi giocatori.

Con Villepreux, invece, siamo nella Club House del Cernusco sul Naviglio Rugby. Non c’è posto più adatto, naturalmente dopo aver mangiato pasta e panino col cotechino in un piatto di plastica, come nella migliore tradizione del terzo tempo.

All’inizio lui guarda dietro le mie spalle, penso che probabilmente avrà fatto un migliaio di interviste e una più una meno è solo routine. Per me no. Mi sono documentato, so di cosa voglio parlare: di formazione e pedagogia applicata all’insegnamento del rugby.

Aldo Invernici ti ha chiamato in Italia nel 78 per allenare la Nazionale, ma non solo: qual era il tuo incarico?
Dovevo metter in opera un metodo di insegnamento del rugby e svilupparlo nelle scuole e nelle università, dopo 4 anni i tesserati erano passati da 8000 a 20000. Abbiamo creato un’associazione di allenatori e abbiamo organizzato degli stage, mettendo in piedi un sistema di formazione con più livelli, che è ancora in funzione: un lavoro enorme. Dopo 36 anni il bilancio è facile da fare: l’Italia è troppo polarizzata sui risultati della Nazionale ed è stato interrotto il processo di sviluppo che mirava a raggiungere il maggior numero di giocatori e di farlo sempre più precocemente. Il metodo di insegnamento del rugby proposto nel quadriennio ’77-’81 non è stato preservato.

C’è stato un aumento significativo di giovani giocatori. Secondo te è aumentato parallelamente il livello di preparazione degli allenatori?
La vera domanda, in Francia come in Italia è: come mettere a disposizione degli allenatori del rugby di base le competenze per utilizzare un metodo di lavoro che abbia un impatto su tutti i giovani? Bisognerebbe avere delle linee guida chiare e condivise. Sarebbe, per esempio, interessante riuscire a far entrare in questo circuito gli ex giocatori della nazionale, cominciando a formarli, facendoli studiare e diplomare prima della fine della loro carriera sportiva così che possano poi occuparsi di bambini, di ragazzi e imparare come si costruisce un giocatore, dal principiante al livello più alto. Effettivamente qualcuno è diventato allenatore, ma subito nell’alto livello, senza essersi confrontato con le difficoltà del rugby di base.

Rimaniamo su questo tema: cosa determina la richiesta da parte dei club di interventi formativi e spiega il successo degli stage che proponi con Sergio Zorzi in Italia?
La ricerca di formazione. Gli allenatori devono cambiare la visione del loro modello formativo proiettandosi su una diversa metodologia di insegnamento. È un passaggio difficile: possono esserne persuasi durante uno stage, possono cercare di applicarlo successivamente, ma se non hanno risultati immediati tendono naturalmente a ritornare al modello di insegnamento che hanno sempre utilizzato.

L’attuale responsabile del pole espoir a Tolosa mi diceva che in Italia siamo fortunati, perché abbiamo meno giocatori ed è più facile individuare i talenti, sei d’accordo?
Sì e no! Se fosse così, una scrematura dei giocatori in giovane età sarebbe sufficiente per avere un gruppo di giovani interessanti, ma il rugby è uno sport a maturità tardiva quindi la vera scelta si deve fare a 16-17 anni, altrimenti si rischia di tagliare fuori dei ragazzi che si rivelano più tardi. Seguendo questa strada la federazione francese ha dedicato troppa attenzione al lavoro fisico e a reclutare giocatori fisicamente fuori norma a svantaggio di giocatori che giocavano bene a rugby, ma erano fisicamente meno dotati.

Ho assistito a diversi allenamenti al pole espoir di Tolosa e mi sono reso conto che viene quasi esclusivamente effettuato un lavoro analitico, non si rischia di ridurre il rugby in tanti piccoli pezzettini?
Certo, è proprio così ed è l’esatto contrario dell’impostazione che avevo dato io. È più facile da insegnare, ma poi i pezzettini non si rimettono insieme e si perde la visione generale. Risulta difficile inserirli all’interno del gioco. Si deve partire dal gioco, dalla sua complessità e poi allenare quello di cui hanno bisogno i giocatori per ritornare al gioco.

Pensi che cominciare precocemente con bambini di 6-7 permetta di sviluppare una motricità completa? Non sarebbe meglio proporre un mix di sport, con al centro il rugby per permettere ai più piccoli di essere in grado di correre, saltare, rotolare e gestire lo scontro fisico a 12-15 anni? 
Se il rugby è ben insegnato permette di sviluppare gli schemi motori di base. Questo non impedisce di affiancare un lavoro specifico. Il vero problema è la mancanza di tempo, in Italia come in Francia. Ci si allena due volte a settimana e sicuramente bisognerebbe domandarsi qual è il ruolo dell’educazione motoria nelle scuole.

  • Il rugby femminile in Francia

Cambio decisamente argomento perché vorrei sapere come Villepreux vede il rugby femminile, un fenomeno in grande sviluppo in questi anni. Da quando la Francia ha organizzato la Coppa del Mondo nel 2013 il rugby femminile ha un’esposizione mediatica e televisiva importante.

Al derby femminile di Tolosa tra lo Stade Toulousain e Blagnac RC erano presenti 2500 tifosi in tribuna; le semifinali e la finale del campionato sono state trasmesse da France Télévision in prima serata, così come la maggior parte delle partite della Nazionale.

Cosa pensi del successo del rugby femminile?
Il rugby femminile ha delle sue peculiarità, perché riflette quello che sono le donne. Non è un copia-incolla venuto male di quello maschile. Le ragazze devono conservare la creatività che le contraddistingue e la voglia di divertirsi. Anche in questo caso, in Francia come in Italia l’attenzione si era concentrata sui risultati della Nazionale, si è fatta della competizione per gusto di competere. Fortunatamente oggi si sta tornando alla formazione. Se c’è una speranza per il rugby in Francia è sulle spalle delle ragazze.

  • Quel Francia-Italia del ’97

Per chiudere mi sono tenuto una domanda scomoda, perché ero davanti alla televisione il 22 marzo 1997 quando l’Italia allenata da Coste vinse, per la prima volta contro la Francia di Skrela-Villepreux, e non so contare le volte che ho rivisto gli highlights della partita su youtube commentata dal duo Munari-Raimondi.

Qual è il tuo ricordo della sconfitta della Francia a Grenoble nel 1997?
Non posso dire che sia un brutto ricordo, perché è stata la prova che la nazionale italiana faceva dei progressi e quel giorno ha giocato bene sotto la guida del mio amico Georges Coste. Sono stato molto contento per lui e un po’ meno per me. Lo sport vuol dire anche perdere delle partite e imparare qualcosa. Abbiamo fatto così, visto che poi siamo arrivati in finale della Rugby World Cup.

di Alessandro Vischi

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