Tanti giocatori “stranieri” nelle rose e il 50% dei ct è neozelandese: una fotografia particolare del torneo
Ct provenienti dall’emisfero sud ce ne sono sempre stati, soprattutto in alcune unions, però l’incidenza dei neozelandesi ormai è conclamata: ben tre allenatori delle nazionali che stanno per iniziare il Sei Nazioni 2015 sono kiwi. Ovvero Vern Cotter (Scozia), Warren Gatland (Galles) e Joe Schmidt (Irlanda), in rigoroso ordine alfabetico. Un torneo legatissimo alle sue tradizioni, impensabile senza di esse e a quel senso di appartenza che lo caratterizza, ma che quest’anno vede il 50% dei suoi principali tecnici non solo provenire dall’altro emisfero, ma da un solo singolo paese.
In Galles poi Gatland è il vero uomo forte, un allenatore che ricopre di fatto il ruolo di director of rugby (importantissima la sua azione nella diatriba che per mesi ha messo di fronte federazione e regions circa il futuro delle seconde nelle coppe europee). In Irlanda Schmidt è la punta di un iceberg che vede il confermatissimo Pat Lam a guidare il Connacht e l’australiano Matt O’Connor sul ponte di comando del Leinster.
Senza dimenticare, infine, che pure l’Inghilterra è stata a un niente dall’essere allenata dal duo Nick Mallett/Wayne Smith, sudafricano il primo e neozelandese il secondo.
Vogliamo poi parlare dei giocatori? Probabilmente mai come quest’anno abbiamo le sei rose rinforzate da atleti nati tra Australia, Sudafrica, Nuova Zelanda e isole del Pacifico ma naturalizzati, equiparati o come altro vogliamo definirli. In ordine sparso: Gareth Anscombe, Dylan Hartley, Brad Barritt, Rory Kockott, Scott Spedding, Bernard Le Roux, Manu Tuilagi, i fratelli Vunipola, Richardt Strauss, Sean Maitland, Jared Payne, Uini Atonio, Nathan White, Blair Cowan, Robbie Diack. Ce ne dimentichiamo sicuramente qualcuno e quello che ci preme ricordare è che sono giocatori inseriti nelle convocazioni di paesi dalla grande tradizione rugbistica come Galles, Inghilterra, Irlanda, Francia e Scozia.
Il caso italiano in questo è un po’ diverso, non fosse altro che la nostra storia non è paragonabile a quella dei nostri partner europei. Non abbiamo un movimento altrettanto largo o profondo. Certo questo non significa che bisogna perseguire la più comoda via dell’equiparazione ma di fronte a un movimento inglese che conta quasi due milioni di tesserati, beh, qualche motivo in più di rivolgerci ai Luke McLean e ai Quintin Geldenhuys lo abbiamo.
Non stiamo dando giudizi di merito, intendiamoci. Le regole lo consentono, non puntiamo il dito contro nessuno, semplicemente scattiamo una fotografia di una tendenza che probabilmente non solo non si fermerà ma che probabilmente tenderà a crescere anche nei prossimi anni. Si cerca la qualità dove la si trova, ed è innegabile che un movimento come quello neozelandese ancorché davvero piccolo in termini numerici sia in gradi di produrre a getto continuo atleti e tecnici di altissima qualità. Lo stesso dicasi per Australia e Sudafrica.
Che Italia, Francia, Scozia, Galles, Irlanda e perfino Inghilterra ci facciano ricorso non è né uno scandalo e neppure una vergogna. E finché si lavora per migliorare il proprio bacino o il proprio movimento la cosa ci può stare, ma siamo sicuri che qualcuno non sarà tentato dal prendere la via più breve ma alla lunga più deleteria?
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