Concussion, dall’Università di Boston arrivano i primi risultati

Tra i cervelli studiati, anche quello di un ex giocatore e allenatore dei Waratahs

ph. Paul Harding/Action Images

Tra colpi alla testa, denunce di giocatori, e quelle di medici, capita che con una certa regolarità si torni a parlare di concussion. A prendere la parola questa volta è stato il Dottor Robert Cantu, luminare neurochirurgo e co-direttore Boston University’s Centre for the Study of Traumatic Encephalopathy. L’argomento, questa volta, è il CTE, sigla con cui in campo medico si identifica il Chronic Traumatic Encephalopathy, una progressiva degenerazione delle capacità neurologiche riscontrata soprattutto in atleti che hanno subito nella loro attività sportiva colpi alla testa. Tra i sintomi, perdita di memoria, confusione, depressione e, nei casi più avanzati, demenza. Nonostante l’IRB sia convinta che no esista evidenza scientifica nel rapporto tra il gioco del rugby e i sintomi della CTE, per il Dott. Cantu e il suo staff il legame sarebbe invece molto evidente. “Non ammetterlo, significherebbe nascondere la testa nella sabbia”. Certo, ricorda il neurochirurgo, altre cause possono portare al CTE, ma nei cervelli esaminati in sede di ricerca (170, tra cui quello dell’ex giocatore dei Waraths Barry “Tizza” Taylor) ricorre con frequenza il caso di persone che hanno subito traumi alla testa. Insomma, non l’unica causa ma la maggiore tra le tante.

Per quanto riguarda invece il PSCA Test, di cui abbiamo già parlato, Cantu si dice in linea di massima favorevole al modo in cui esso è condotto, ma lamenta un’insufficienza in termini di tempo: cinque minuti sono meglio di uno, ma assolutamente non bastano per capire se il giocatore abbia o meno subito una concussion. L’ “International Concussion Statemente” di Zurigo, progetto a cui lo stesso Cantu ha lavorato, parla chiaramente di un tempo minimo di quindici minuti per valutare l’eventuale variazione delle capacità psico-motorie dell’atleta. Un limite di tempo massimo non esisterebbe, in quanto varia da persona a persona il tempo per valutare che assolutamente il colpo non abbia avuto conseguenze. Questa, conclude il Dott. Cantu nel suo intervento, è l’area più importante in cui fare ricerca e su cui sensibilizzare ed educare atleti e staff tecnici. Con un occhio di riguardo ai casi che riguardano i più giovani: “il cervello dei più giovani, soprattutto sotto l’età di dodici anni, è più vulnerabile ed esposto a rischi di concussion di quello di un adulto”.

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