Test match 2017, l’Italia dopo le Fiji: a passo lento ma deciso

Poco scintillanti, ma solidi e sempre sul pezzo. Dagli Azzurri (per ora) non si poteva pretendere molto di più

ph. Massimiliano Carnabuci

ph. Massimiliano Carnabuci

Quando si analizza il presente, in particolare una realtà per sua natura instabile come l’Italrugby, non si può prescindere anche dal rimembrare il suo recente passato. Specie se si paragona poi a quello dei suoi avversari di sabato nel primo test match di novembre, le Fiji. Mentre gli Azzurri arrivavano da un anno di sconfitte, alcune delle quali molto dure per punteggio e per com’erano arrivate, gli isolani avevano racimolato quattro vittorie (di cui una contro la Scozia) e una sconfitta dignitosa contro l’Australia nel 2017.

Due percorsi diametralmente opposti, che assicuravano un carico di pressione non indifferente per la squadra di Conor O’Shea, forse l’unica tra le due che aveva tutto da perdere. Anche perché, un po’ stranamente se si considera quanto detto finora, l’Italia partiva perfino con i favori nel pronostico, sia a causa del fattore casalingo sia per il maggior tempo speso insieme rispetto alle Fiji per preparare la gara.

Di fronte ad un esame così importante, che per giunta arrivava all’esordio stagionale, l’Italia ha balbettato soltanto in alcuni brevi frangenti della partita, dimostrando una mentalità solida non scontata e una resistenza sugli ottanta minuti – quella sì – più preventivabile, visto l’andazzo nelle franchigie. Quella azzurra è stata una prestazione brillante – se per brillante non intendiamo solo il rugby champagne – in alcuni aspetti, più scialba in altri ma complessivamente positiva, perchè rappresenta un punto di partenza su cui lavorare in vista del prossimo futuro. E con la pancia piena si lavora indubbiamente meglio.

 

A passo lento

Gli uomini di O’Shea hanno impresso un ritmo tutt’altro che infernale alla partita, consapevoli probabilmente di poter trovare la chiave per scardinare la non attentissima difesa figiana con pazienza e lavoro ai fianchi. Nel primo quarto d’ora l’Italia ha accelerato con più continuità, cercando forse di mettere fieno in cascina subito per poi rallentare in un secondo momento: un piano di gioco rispettato in pieno, nonostante l’abbrivio giusto preso dagli Azzurri non avesse prodotto nessuna meta (che sarebbe stata marcata da Ferrari attorno alla mezzora). Successivamente, inoltre, Parisse&co. hanno faticato a trovare le giuste spaziature in campo, e questo ha contribuito a rallentare la manovra offensiva dell’Italia complice anche un Marcello Violi che ha spesso impiegato un paio di tempi in più per tirare fuori il pallone dal raggruppamento.

Volendo forzare un paragone con una delle due franchigie del PRO 14, è piuttosto facile giungere alla conclusione che si è trattata più di un’Italia in versione Benetton Treviso che di una versione Zebre, proprio per l’eccessiva piattezza della linea e la difficoltà nel distribuire adeguatamente l’ovale. Nel secondo tempo, poi, la volontà di non accelerare da parte degli Azzurri è diventata molto più evidente, sebbene i tanti errori e l’indisciplina dei figiani (15 turnover concessi, 15 punizioni fischiate contro) aprivano di volta in volta scenari interessanti che l’Italia avrebbe potuto sfruttare per uccidere prima – e con una marcatura pesante – la partita. Anche gli Azzurri, pur dimostrando maggiore confidenza con l’ovale, sono incappati però in 14 palle perse, che spesso hanno reso vana la solidità della mischia (che però non ha dominato) e l’ottimo lavoro in rimessa laterale.

 

La difesa che serviva

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ph. Massimiliano Carnabuci

È stato decisamente strano – e presumo sia una sensazione diffusa – scoprire che l’Italia non è stata la squadra a fare il maggior numero di placcaggi durante la partita. Agli Azzurri sono serviti ‘appena’ 64 placcaggi per stoppare le velleità di vittoria delle Fiji, mentre gli avversari hanno dovuto ricorrere a ben 112 interventi. Numeri che sono il riflesso del 63% nel possesso e addirittura del 72% per il territorio, altre due statistiche decisamente poco convenzionali per una squadra come l’Italia (e di questo bisogna ringraziare l’indisciplina figiana). Aver trascorso relativamente pochi minuti a pensare alla fase difensiva, in questo senso, può aver inciso positivamente sull’efficacia dei placcaggi, sempre molto ben portati per impatto e per capacità di non concedere la linea del vantaggio alle Fiji; sugli scudi in particolare la coppia di centri, Boni e Castello.

L’unico errore grave è arrivato purtroppo proprio in occasione della meta di Nakarawa, con Minto e Parisse responsabili principali, ma per il resto nemmeno i 9 placcaggi mancati hanno destabilizzato la difesa azzurra. Qualcosa è stato concesso, ma nulla che andasse oltre il limite fisiologico che viene imposto naturalmente nel momento in cui si affronta una squadra sempre sul filo del rasoio come le Fiji.

 

Verso l’Argentina

Parisse, nella conferenza stampa della vigilia, aveva spiegato come fosse difficile per l’Italia vincere giocando male. Gli Azzurri non hanno offerto spettacolo – e sarebbe stato sciocco pretenderlo -, ma sono riusciti ad indirizzare la partita sui loro binari, ringraziando in buona parte anche le Fiji ma senza mai perdere la bussola. Anche questo rientra nello ‘giocare bene’, del resto. Non è servito – e questo è sembrato palese – il 110%, ma se si vorrà continuare la striscia di vittoria contro l’Argentina bisognerà andarci molto vicino. I Pumas, come le Fiji, non hanno nella costanza di rendimento il loro punto forte, ma possono vantare un’organizzazione migliore e una ruvidità più efficace rispetto a quella figiana nella battaglia del breakdown e nelle collisioni.

Gli Azzurri, dal canto loro, dovranno inevitabilmente alzare il livello del proprio attacco a trecentosessanta gradi: struttura, esecuzione, scelte e attitudine ad andare sempre in sostegno del compagno. La difesa, le fasi statiche e la fisicità messa in campo sono state tra le note più positive, insieme alle prestazioni di alcuni singoli – l’esordio di Hayward, le partite di Budd e Steyn -, ma per il match di Firenze serviranno ulteriori passi in avanti.

 

Daniele Pansardi

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