Alle radici della vittoria: battere gli All Blacks in tre mosse

Difesa, gioco aereo e dominio dei punti d’incontro: il successo sui neozelandesi è solo l’apice di un processo di crescita

ph. Reuters

“Me ne sono uscito con alcuni schemi incredibilmente mediocri… Ma sulla carta comunque sembravano davvero buone” dice Joe Schmidt. La meta di Jacob Stockdale è stata un piccolo diamante che ha scintillato in una serata dove all’Irlanda è riuscito quasi tutto, riuscendo a sbloccare in maniera decisiva una partita giocata incredibilmente alla pari.

Una parità che oltre all’equilibrio visto in campo è rispecchiata anche nei numeri: sono simili le cifre statistiche riguardanti le cariche, i passaggi, i calci eseguiti, i placcaggi riusciti e quelli sbagliati, i breaks e a percentuale di ruck vinte.

Per raggiungere il traguardo di una vittoria davvero di grande importanza, anche e soprattutto in ottica coppa del mondo, l’Irlanda ha messo in atto il proprio game plan, aggiustando alcuni dettagli per essere più incisiva rispetto agli avversari.

La vittoria di Dublino è la risultante di un processo di crescita che dura oramai da anni, e che porta l’Irlanda alle porte della coppa del mondo con la migliore nazionale di tutti i tempi, e colpisce dirlo ora che Paul O’Connell, Brian O’Driscoll, Ronan O’Gara e Tommy Bowe si sono ritirati.

Alla ricerca di un vantaggio

Il sistema di gioco dell’Irlanda è piuttosto semplice da un punto di vista teorico, mentre risulta poi più complesso metterlo in pratica: consiste nel cercare i mismatch presenti sul campo e capitalizzare al massimo quelle situazioni. Si cerca quindi di far caricare uno dei pesanti ball carriers contro uno dei giocatori più piccoli degli avversari, o di mettere un veloce contro un lento.

Nella partita contro la Nuova Zelanda si sono particolarmente accentuati i numeri dei possessi dei giocatori maggiormente dotati in entrambi i sensi: CJ Stander, James Ryan, Tadhg Furlong e Bundee Aki si sono fatti carico del 42% delle cariche portate dal complesso dei 23 giocatori irlandesi scesi in campo, mentre fra i veloci chi ha più volte sfidato la linea avversaria è stato Garry Ringrose (14 corse).

La semplicità di questi principi è al tempo stesso croce e delizia del gioco di Schmidt. Le partite nelle quali abbiamo visto l’Irlanda in difficoltà, infatti, sono quelle dove la difesa alza il proprio livello al punto tale da non offrire vantaggi da sfruttare, come per esempio è riuscita a fare l’Australia lo scorso giugno.

Quando questo non accade, o l’avanzamento dei giocatori in maglia verde è limitato, l’Irlanda si rifugia spesso nel calcio alto, una delle armi migliori a disposizione, potendo schierare in campo un numero 15 come Rob Kearney, che rispetto alla gioventù ha forse perso qualcosa in rapidità, ma ha conservato eccelse qualità nel gioco aereo, dov’è fra i primi tre a livello mondiale.

Una superiorità made in Dublin

Dove l’Irlanda però è da qualche tempo al top è l’interpretazione dell’area del placcaggio e dei punti d’incontro. Una attitudine sviluppata in maniera particolarmente accurata dal Leinster, grazie alla quale la squadra di Dublino ha saputo dominare la scena europea negli scorsi anni.

I giocatori della franchigia sono stati bravi a esportare quella peculiarità, inevitabilmente maturata anche sotto l’egida dello stesso Joe Schmidt, anche con la maglia della nazionale, dove interpreti provenienti da altre realtà come Peter O’Mahony e CJ Stander hanno dimostrato abilità totalmente complementari e orientate allo scopo.

“Ogni  volta che entri in una ruck, devi completamente cambiarne gli equilibri. Se cadi o non sei sulle tue gambe, devi portare qualcuno giù con te. Colpisci sulla base del semplice sospetto: chiunque si trovi in quel metro di spazio, te ne devi liberare.”

Il virgolettato è di James Lowe, l’ala neozelandese del Leinster arrivata a Dublino all’inizio della scorsa stagione. Il giocatore ha parlato così dell’interpretazione dell’area del placcaggio: ogni volta che un compagno di squadra viene messo a terra, ogni sostegno sa di avere il dovere di neutralizzare ogni possibile minaccia nelle vicinanze del punto d’incontro che si è venuto a creare.

Mantenere il possesso del pallone è infatti strumentale per la logorante ricerca del mismatch dell’attacco irlandese.

Ventidue metri blindati

In difesa, invece, l’obiettivo irlandese è quello di rallentare il più possibile i palloni avversari. Un traguardo raggiunto a partire dal placcaggio, spesso sulla parte superiore del corpo per riuscire a bloccare una eventuale trasmissione del pallone nel contatto e, quando possibile, raddoppiato con il famigerato choke tackle per tenere in piedi l’avversario e forzare il cambio di possesso.

Un cambio di possesso che però, grazie alla superlativa prestazione di Stander, O’Mahony e van der Flier, è stato ottenuto numerose volte anche nei punti d’incontro. Quando però l’Irlanda non riusciva a forzare il turnover, lo sforzo dei giocatori impegnati nella ruck era comunque quello di porre problemi agli avversari per rallentarne l’uscita.

L’Irlanda è riuscita in qualcosa di straordinario rispetto agli avversari recenti degli All Blacks: riuscire a non farli segnare quando sono entrati nei 22 avversari. I neozelandesi sono entrati nella zona rossa avversaria con il pallone in mano 7 volte (contro le 6 irlandesi), tornandone indietro solamente con 3 punti, frutto di un drop di Barrett sull’onda di un vantaggio ottenuto. Nelle altre due occasioni in cui hanno segnato, infatti, il 10 in nero si trovava al di fuori della linea dei 22 metri.

Nel primo tempo gli All Blacks hanno avuto tre occasioni: in una, come detto, hanno segnato; nelle altre due l’Irlanda ha forzato il turnover, con Stander a guadagnare un calcio di punizione nei primissimi minuti e Toner a scippare l’ovale al quarto d’ora.

Dopo il drop subito, gli irlandesi hanno tenuto gli avversari fuori dai propri 22 fino ai venti minuti finali, quando la Nuova Zelanda ha alzato il ritmo alla ricerca del pareggio. Le quattro opportunità occorse nella ripresa si sono concluse con due capolavori di O’Mahony (il calcio di punizione per tenuto e lo strabiliante salvataggio in tuffo sul grubber di Barrett per Ben Smith), uno di Kearney che si interpone nella linea di sostegno di Perenara al break di Barrett e sottrae il pallone agli avversari, e un in-avanti di Retallick nei minuti finali.

Neanche i British & Irish Lions, l’ultima squadra riuscita a non far segnare una meta agli All Blacks in una partita un anno e mezzo fa, erano riusciti a spuntare le armi neozelandesi, tanto da far segnare loro meno di un punto di media per ogni ingresso nei 22 avversari (0,43 il dato degli irlandesi).

Un dato complementare è quello della disciplina. Guardiamo al numero dei falli commessi: i padroni di casa sono riusciti ad incorrere in appena cinque calci di punizione fischiati a sfavore contro gli 11 imputati ai neozelandesi. Una discreto giro di vite all’aspetto disciplinare per l’Irlanda, che è fin qui la squadra che ha commesso meno falli nei test di novembre: 14 calci di punizione concessi in totale, una media di 4,7 a partita. Per contestualizzare, i primi inseguitori sono Nuova Zelanda (7,3 a partita), Sudafrica (7,7) e Italia (8,7).

L’Irlanda concluderà il proprio novembre internazionale il prossimo sabato contro gli Stati Uniti, in un test minore più importante per gli ospiti che per i padroni di casa. I dieci mesi che separano l’Irlanda dalla Rugby World Cup 2019 assumono ora una sfumatura diversa: tutti gli occhi sono puntati su questa squadra, che come tutte le trionfatrici della rassegna iridata hanno battuto i campioni a un anni dal mondiale. Per dirla con Steve Hansen: “Vediamo come se la caveranno da favoriti.”

Lorenzo Calamai

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