Gruppo unito e barriere abbattute: il legame tra giocatori, staff e famiglie

Andrea Masi apre le porte della dimensione quotidiana del professionismo. Si parla di club e Nazionale

andrea masi wasps rugby

ph. Adam Holt/Action Images

“Il compito del DoR è anche questo, creare un ambiente piacevole affinché sia un piacere vivere di rugby”, scrivevamo nella prima puntata del focus dedicato all’evoluzione degli staff tecnici negli Anni Duemila e in particolare alla figura del Director Of Rugby, che emerge in tempi recenti prendendo il posto del capo allenatore nelle gerarchie di società e squadre.

In questa seconda parte parleremo proprio dell’importanza del suo lavoro dal punto di vista di ambiente e contesto, parallelo ma non meno importante di quello tecnico. Del resto, essere un giocatore professionista non significa solo allenarsi e scendere in campo: se questi momenti rappresentano gli aspetti professionalmente e sportivamente più importanti, sono solo una parte rispetto al lavoro di quotidiano contatto e dialogo tra staff e compagni di squadra. Momenti in cui si sta assieme con l’obiettivo di formare qualcosa che vada al di là del rugby, qualcosa che può risultare determinante anche per la costruzione di una performance collettiva di qualità: in campo ti devi battere per te stesso ma anche per il compagno, per gli allenatori e se non c’è un rapporto forte difficilmente darai il 100% e oltre per loro.

Inizio col dire che ritengo fondamentale avere la possibilità di lavorare in un ambiente piacevole, che coinvolga giocatori e staff secondo modalità e approcci non solo puramente rugbisitci e professionali. Da questo punto di vista, nel corso della mia carriera ho riscontrato una notevole differenza tra gli allenatori francesi e inglesi, che riflette in parte quanto detto nei giorni scorsi a proposito del diverso lavoro impostato da un tradizionale capo allenatore e da un Director of Rugby.

In generale, ma ovviamente il discorso non può essere generalizzato tout court, gli allenatori francesi non parlano molto ai singoli giocatori, quasi vogliano mantenere una certa distanza ed evitare che si costruiscano rapporti al di fuori dell’ambiente professionale. Questo approccio si riflette anche in alcune scelte di gestione e apertura del gruppo: con Jacques Brunel, ad esempio, due giorni prima della partita le famiglie non potevano venire in albergo. Una scelta per mantenere alta la concentrazione solo sul momento professionale, ma che personalmente trovavo invece migliorabile: la famiglia dà tranquillità, fiducia, permette temporaneamente di liberare la mente…Ci pensa già di per sé il livello internazionale, denso di pressione e tensione, a caricare la mente e se in più non puoi incontrare i tuoi cari tutto si esaspera ulteriormente.

L’approccio inglese è invece agli antipodi. Gli allenatori parlano individualmente coi ragazzi e non solo di rugby, ma anche di famiglie per esempio. Le barriere staff/giocatore sono sbagliate, in ogni ambiente professionale l’idea del capo che comanda è superata e aggiungo io sbagliata, un po’ come quella del capo allenatore.

Quello inglese, certamente, è un approccio ricercato e studiato, volto ad ottimizzare la prestazione collettiva ed individuale: tutto è finalizzato al risultato, alla performance in campo. Ma come dicevamo, il lavoro del Director of Rugby è anche mentale e psicologico: deve stimolare i propri giocatori, adeguare il proprio approccio in base al singolo individuo… In una parola, deve conoscere i ragazzi. E in questo modo inevitabilmente nascono cose, complicità, si coinvolgono le famiglie nella vita del club senza separare lavoro e affetti. Da giocatore, ne risenti in modo positivo. Alcune società, come per esempio Saracens e Wasps, all’interno delle proprie strutture hanno la creche, l’asilo nido: i giocatori vanno al lavoro con i figli, li lasciano a scuola e nei tempi morti hanno la possibilità di vederli. Ai Wasps poi all’interno dello stadio è presente una sala esclusiva per i familiari con cibo e bevande, a testimoniare l’attenzione dei club per le famiglie dei giocatori.

Queste differenze di approccio e metodo si riflettono anche nel modo in cui è impostato il rapporto professionale. Sto studiando da allenatore qui in Inghilterra  e la cosa che più mi ha impressionato del metodo inglese è il dialogo che si crea tra atleta e tecnico. Gli allenamenti sono improntati sull’interazione: al giocatore non si dice di fare una cosa, ma si arriva ragionando insieme alla risoluzione di un problema, affinché cresca un giocatore attivo, in grado di comprendere il gioco e il perché di determinate scelte.

Per quanto riguarda poi il percorso di crescita di una squadra, è importante che un determinato progetto tenga conto delle forti differenze che esistono tra allenatori provenienti da diverse scuole e di quanto queste possano influire sulla crescita singola e collettiva dei giocatori. In una parola deve esserci coerenza tra presente e futuro. Il percorso della Nazionale è stato invece in parte diverso. Nel giro di dieci anni abbiamo cambiato quattro allenatori e tre scuole: Nuova Zelanda, Francia, Sudafrica e di nuovo Francia, ovvero Kirwan, Berbizier, Mallett e Brunel.

Qualcuno potrebbe pensare che ciò sia stato un limite nella crescita dell’Italia e probabilmente è vero, ha rappresentato un ostacolo. C’è una grossa differenza tra la struttura e la mentalità di un tecnico sudafricano e quelle di un allenatore neozelandese o francese, come abbiamo prima sottolineato. Noi giocatori percepiamo questa differenza, soprattutto in termini di organizzazione e struttura, ma anche di gestione del gruppo fuori dal campo….La scuola francese, per dirla con una formula, lascia magari più libertà in campo ma tende a definire il tempo passato fuori, quella inglese invece è l’esatto contrario: maggior struttura tecnica e più rilassatezza fuori. Credo di poter dire che da questo punto di vista non ci sia stata una linea logica nel nostro percorso di crescita. Tanto più che a livello internazionale si ha poco tempo a disposizione e per adattarsi ad una nuova filosofia ne servirebbe certamente di più.

Ripensando comunque a mente fredda agli anni in Azzurro, credo di aver preso il meglio da ogni allenatore. Chiaramente non tutti trasmettono cose che per forza condividi o in cui credi, ma anche il meno preparato ti lascia qualcosa di sé e della propria scuola. Ho apprezzato in modo profondo John Kirwan: un grande manager e un ottimo comunicatore, che parlava molto con i giocatori. Pure Nick Mallett era molto aperto, ma più un allenatore da campo che un Director of Rugby inteso come abbiamo descritto questa figura.

Il quotidiano vissuto nel club e l’importanza dei leader

Se in Nazionale il tempo per creare legami e relazioni è, come abbiamo scritto, molto poco, nel club la situazione è ovviamente diversa. Rispetto al passato però, tutte le squadre hanno ormai rose internazionali, con giocatori provenienti da ogni continente. Tutto ciò ha costretto gli allenatori a rivedere in parte le dinamiche di gruppo: creare una squadra unita era più semplice quando avevi solo una nazione rappresentata e pochissimi stranieri, basti pensare solo ai motivi puramente linguistici.

Anche in Inghilterra, dove praticamente tutti i giocatori parlano inglese, la struttura dell’allenamento è stata ripensata proprio per favorire gli aspetti relazionali e di gruppo. Si arriva al club alle 8 e si torna a casa attorno alle 14/15, il che significa che si condividono colazione e pranzo, momenti in cui non c’è attività e durante i quali la squadra si unisce e si rinforza il legame tra compagni. Poi certo, il gruppo dei figiani o dei sudafricani tende a stare più assieme, ma rispetto alle sedute di allenamento del passato, in cui si arrivava la mattina e si tornava dopo pranzo, questa organizzazione del lavoro favorisce moltissimo le interazioni interne.

Almeno nei primi periodi in un nuovo club avere dei compagni connazionali certamente aiuta, come per esempio è stato nel mio caso con Andrea Lo Cicero e Carlo Festuccia al Racing… Indubbiamente fa comodo, è piacevole parlare italiano con qualcuno, ma alla lunga è limitante: non volendo ti ritrovi spesso a parlare più con il tuo “gruppetto”, mentre invece il primo anno ai Wasps, prima dell’arrivo di Lorenzo Cittadini e Festuccia, ero solo. E devo dire che in quell’occasione mi sono aperto molto di più rispetto ad altre volte.

In generale comunque è fondamentale creare questo tipo di rapporto, aprirsi, comunicare…E ritengo tutto ciò importante tanto più nel rugby d’oggi, iper professionale e carico di pressione. Vanno molto le attività di team building per esempio, soprattutto in pre season. Ma la vera differenza la fa il quotidiano, è lì che il rapporto va nutrito. La squadra non si forma dopo un’attività di un giorno, ci possono volere cinque mesi o un anno intero. E in questo i leader della squadra hanno un ruolo importantissimo: sono i cinque sei giocatori più rappresentativi e hanno il compito di far sì che il gruppo sia unito.

Ricordo quando a 25 anni arrivai a Biarritz, squadra fortissima campione di Francia in carica e vice d’Europa. Avere in gruppo giocatori come Harinordoquy, Traille, Betsen, Yachvili mi aiutò tantissimo: grazie al loro impegno a mantenere la squadra unita, accogliendo i nuovi arrivati, sono riuscito a creare subito legami e a percepire quell’ambiente come positivo. Per i senatori è una responsabilità enorme, tanto nel club quanto in nazionale.

 

Andrea Masi

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