Carter, Fitzgerald e quelli che “lo psicologo di squadra è fondamentale”

L’apertura All Blacks nella sua biografia ripercorre i momenti difficili e l’importanza di questa figura. Una voce non certo isolata…

ph. Sebastiano Pessina

ph. Sebastiano Pessina

E’ uscito in questi giorni “Dan Carter: My Story”, biografia del giocatore All Blacks fresco vincitore della RWC e che si appresta questo weekend al debutto con la nuova maglia del Racing. Negli ultimi giorni il 112 caps in maglia tutta nera ha rilasciato diverse interviste in occasione delle presentazioni del suo libro a cui intervenuto. Tra gli argomenti più interessanti tra i vari toccati ripercorrendo la sua straordinaria carriera, Carter è più volte tornato sull’importanza che in essa ha avuto il supporto dato dalla figura dello psicologo di squadra. Con il NZ Herald, per esempio, ha ripercorso il difficile momento vissuto alcune stagioni fa, quando dopo l’infortunio leggeva di non essere più considerato il numero uno e temeva che Hansen condividesse questo pensiero: “Leggi queste cose, e magari ne pensi altre e dici “ma perché non smetto” “? A complicare le cose ci si mise anche il deterioramento dei rapporti con il coach, con cui a malapena parlava. Carter si rivolse allora allo psicologo di squadra, figura che da sempre ha considerato fondamentale. L’episodio più recente, invece, è accaduto pochi giorni prima della semifinale iridata contro il Sudafrica agli ultimi Mondiali. Carter, rivela, aveva sofferto un problema al collaterale e oltre a dover combattere l’infortunio ha dovuto combattere pure i fantasmi che lo portavano a pensare al peggio. La chiosa del suo ragionamento è semplice: “Per come il gioco si è evoluto, sarebbe da matti non avere uno psicologo di squadra”.

 

In molti lo hanno capito, e sono sempre più le squadre che si sottopongono collettivamente o individualmente a confronti aperti con specialisti della preparazione mentale. Des Fitzgerald, pilone 34 caps con la maglia dell’Irlanda tra il 1984 e il 1992 e padre di Luke, attuale giocatore della nazionale Irish, in un’intervista al Telegraph ha rivelato che il figlio dall’età di 17 anni si è affidato al supporto di un esperto in psicologia dello sport professionistico. “Lavorare assieme a simili figure ti permette di ottenere il massimo da te stesso, che è ben diverso dall’essere semplicemente delle persone competitive”. Gli fanno eco le parole del figlio: “Chiunque abbia giocato uno sport ad alto livello capisce che la vera differenza tra gli atleti è a livello mentale. Il lavoro fisico ormai è molto simile a quello dei tuoi avversari”.
Lo pensa anche Jonny Arr, mediano di mischia classe 1988 da una vita a Worcester. La dirigenza Warriors nel 2014 ha deciso di coinvolgere un esperto di psicologia nello staff della squadra, a detta di Arr con importanti risultati. “Non sempre è solo il corpo ad essere coinvolto, centra anche la testa […] L’aiuto dello psicologo è stato quello di farci capire che anche la testa può essere allenata e preparata, esattamente come quando facciamo preparazione atletica – ha raccontato al Worcester Observer in una recente intervista –  Il rugby non è solo uno sport di grandi impatti fisici, contano anche le menti”.

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